Oggi siamo di fronte ad una sorta di nuovo paradigma economico. Possiamo riassumere gli ultimi quarant’anni di politiche economiche occidentali come espressione della visione neoliberista: una teoria che ha come obiettivo la massimizzazione del benessere complessivo rispettando due condizioni di base, cioè la libera azione del mercato e il minimo intervento possibile da parte dello stato.

Ma non ci si riferisce, nel limitare l’ azione dello stato, alla semplice assenza di regole, ma anche alle copiose privatizzazioni e limitazioni degli investimenti pubblici: leva di intervento quest’ultima che in chiave anticiclica aveva ben dimostrato nel dopoguerra la reale capacità di salvaguardare l’occupazione e garantire stabilità e crescita al sistema economico, ovviamente abbinata alla piena disponibilità della propria moneta nazionale.

Questa visione ha subito una sorta di shock con la crisi dei “subprime” del 2007: è stato evidente a tutti il limite di un mercato senza argini o limiti. Una sorta di brusco risveglio da una ipnosi collettiva.

Altra immagine plastica è stato il crollo del ponte Morandi a Genova, emblema delle privatizzazioni a favore di privati che, lontano da logiche “no profit”, perseguono di fatto l’utile aziendale a scapito dell'utilità sociale (e delle manutenzioni).

Inoltre è avanzata la consapevolezza della crescente ingiustizia sociale. Basta riferirsi ai lavori di diversi economisti per vedere come l’ approccio neoliberista abbia polarizzato la ricchezza su pochi, indebolito la classe media e creato nuovi poveri: dove non c’ è intervento dello stato e della politica difficilmente c’è giustizia sociale e solidarietà.

Tale visione fideistica sempre più globalizzata e finanziarizzata, ha permeato anche la politica economica europea, dando vita a quel corpus rigido di norme tecniche che di fatto hanno ridotto al minimo il ruolo dello stato con il conseguente protagonismo del libero mercato e della tecnica. Si pensi ad esempio ai vincoli sulla spesa pubblica in deficit e ai fortissimi limiti agli investimenti pubblici. Questa è la tesi di fondo che ha portato alla bocciatura dei primi bond europei Tremonti Juncker, alla creazione del fiscal compact, al mancato scomputo degli investimenti dal deficit, all’austerity in generale..

Questo fino ad oggi.

Perché se si considerano gli investimenti pubblici messi in campo con il PNRR si capisce che l’aria è cambiata. E lo si capisce leggendo il titolo dell’annuale festival dell’economia di Trento: “Il ritorno dello Stato. Imprese, comunità, istituzioni”. Cosa è successo? Il modello neoliberale oltre ad aver dimostrato ampiamente tutti i suoi limiti sta perdendo la sfida con un altro modello economico che è essenzialmente un capitalismo di stato: quello cinese.

Ecco allora che il dibattito si sposta da cosa deve fare il mercato a cosa deve fare lo stato: è il ritorno dello Stato, e lo si vede dai piani massicci di investimento pubblico (si pensi anche alle politiche economiche di Biden), spesa a deficit, programmi di vaccinazione di massa e pianificazione climatica. Per vincere la sfida globale si rincorre il modello che ha prodotto un vantaggio competitivo nel breve periodo, basato sul rigido controllo statale a scapito della libertà.

Quindi si passa dal focus sul mercato al focus sullo stato (vedete che i primi titoli non sono più sullo spread?), ed in quest’ottica sicuramente va pensata una riforma della politica economica europea, continuando ad insistere su un cambio di paradigma nei trattati, Maastricht in testa, al fine di garantire l’ intervento pubblico nell’economia superando l’austerity.

Ridare quindi all’intervento pubblico la capacità di creare shock asimmetrici per uscire dalle crisi, bilanciare il ruolo della tecnocrazia con il ritorno della politica, riformare complessivamente in senso etico la regolamentazione europea per superare le evidenti ricadute economico sociali negative che l’attuale impostazione ha creato.

La riforma della casa europea da attuare in questo senso è ampia ed articolata. Ma quello che forse oggi ha senso inquadrare subito è il potenziale disallineamento all’orizzonte.

Preso atto che è necessario il ritorno dell’intervento pubblico, che tipo di intervento statale scegliamo come comunità politica? Una società che cresce nell’incivilimento è fondata sull’equilibrio tra stato, mercato e corpi intermedi.

E i corpi intermedi sono il centro. Il fine è promuovere lo sviluppo integrale della persona, non lo statalismo e nemmeno l’appena (forse) tramontato mercatismo. Ecco che di fronte ad un potenziale ritorno di uno stato interventista bisogna interrogarsi subito se sarà uno stato che metterà un argine al mercato in ottica della giustizia e della solidarietà oppure se sarà uno stato che, non trovando sostegno e radicamento nella sovranità popolare a causa della crisi del parlamentarismo e della teorizzata post democrazia, possa soverchiare la dignità della persona.

Anni e anni di primato del profitto e di relativismo culturale hanno creato un processo di atomizzazione della società, di inaridimento del tessuto sociale, dove l’uomo si è trovato sempre più solo di fronte al mondo e lontano dalle proprie radici, non più inserito nella famiglia, nella comunità locale, nelle associazioni, nei partiti…tutte articolazioni della società che danno l’indirizzo e il senso dell’agire pubblico, delle istituzioni.

Più ricca è la società di corpi intermedi, più sentita è la logica della sussidiarietà, più si realizza quell’ intuizione che Toniolo aveva indicato come argine e limite allo stato forte.

Viceversa il rischio di una guida extra democratica è forte.

Una società che sceglie di fondarsi su una antropologia trascendente riscopre il valore della relazione (caratteristica in primis trinitaria) che naturalmente sfocia nel rifiorire dei corpi intermedi (dalla famiglia ai partiti), nella libera azione delle persone, antemurale sia allo statalismo che al mercatismo.

Ma se in qualche modo stato e mercato si stanno già riequilibrando, oggi per tracciare la rotta di una società che non cada vittima degli errori del passato (troppo stato, troppo mercato) occorre investire nella sussidiarietà, nei corpi intermedi, nella famiglia, nel welfare comunitario, nella democrazia economica, nell’applicazione delle teorie dei common goods (beni comuni), nel potenziare le imprese cooperative, il terzo settore, incentivare la piccola proprietà privata e le PMI caratterizzanti il distretto industriale italiano naturalmente innervato nei processi comunitari locali.

Serve una matura coesistenza tra stato, mercato e corpi intermedi per generale il vero sviluppo, quello che sta alla base della visione dei cristiani democratici.

Alessio Righele