di Ruggero Morghen



Mi vengono alla mente in questi giorni i duri giudizi formulati da Marcello Veneziani nel 2020 a proposito di Giulio Andreotti. Certamente lo statista romano non era santo de su devoción, tanto che in altra occasione ebbe a scrivere che lui governava l’Italia come fosse lo Stato pontificio. A suo avviso i ritratti condensati dal Presidente nei suoi Visti da vicino erano inguaribilmente “poveri di fatti, evasivi e minimalisti, scialbi e anche un po’sciatti nella prosa, neanche narrati in modo brillante, smentendo – aggiunge impietoso – la fama ironica e spiritosa di Andreotti”. Il giornalista-scrittore di Bisceglie concludeva assai severamente asserendo che nei personaggi da lui ritratti “non c’era il tragico, non c’era lo storico, non c’era neanche il grottesco”. (Pure l’amico Karl Evver, se ben ricordo, avanzava critiche alla prosa andreottiana).

Come scriveva, invece, Renzo De Felice? Sempre Secondo Veneziani, lo storico reatino “scriveva male e parlava peggio (era pure balbuziente)”. “I suoi testi sul fascismo – argomenta lo scrittore pugliese - sono farraginosi, involuti e dispersivi. Lo notava con elegante crudeltà  - rileva quindi - non un suo nemico ma un suo estimatore che gli aprì le porte del suo Giornale, Indro Montanelli”. Non a caso i suoi testi più efficaci sarebbero quelli in forma d’intervista - a Leeden, a Giuliano Ferrara, a Pasquale Chessa - o gli scritti giornalistici curati da un altro suo allievo, Giuseppe Parlato (tra gli allievi De Felice ebbe anche Paolo Mieli e il cantautore Francesco De Gregori). 

Per Aldo Righetti si tratta tuttavia di un fenomeno risaputo e generale, nessuno scandalo dunque. Infatti questo “spesso succede per i testi (documentatissimi, ma illeggibili) di molti accademici che scrivono in maniera volutamente involuta: avrebbero bisogno – rileva - di corsi supplementari di 'bello scrivere' in italiano (non parliamo poi delle esperienze universitarie... mattoni indigesti)”. 

A difendere lo storico del fascismo ci pensa Claudio Siniscalchi: “Marcello [così amichevolmente egli chiama il rubrichista di “Panorama”] si sbaglia di grosso. La scrittura di De Felice è difficile, complessa, troppo attenta al documento. Poi per ogni singolo aspetto egli fa una sintesi chiara e assai comprensibile. Novantotto pagine servono per illustrare l'argomento, due per spiegarlo”. 

Spezza una lancia a favore del reatino anche Walter Jeder: “Avercene di De Felice!”. Mentre “di Montanelli, penna vivace e ondivaghi umori, ne potevamo anche fare a meno”. “Crudeltà per crudeltà – conclude -, montanellianamente andava detto”. Siniscalchi concorda invocando negli studi l’applicazione del metodo. E osserva che la ricerca storica può anche non essere “saporita” ma serve quando è solida. “A chi legge – aggiunge - tocca mettere in fila i mattoncini delle fonti serie e concludere”.