Erdogan ha dato del maleducato ed impertinente al nostro Presidente del Consiglio. Mario Draghi non ha certamente bisogno di consigli, né tantomeno vogliamo dargliene. La visita a Tripoli con la collegata polemica sul ruolo della guardia costiera libica e l’incidente diplomatico scaturito dall’appellativo di dittatore al Presidente Erdogan, ci inducono tuttavia ad una piccola riflessione a voce alta.

La questione è lampante: Draghi non ha minimamente risposto alle sollecitazioni giuntegli per sconfessare o ammorbidire il suo giudizio sul presidente turco.

Si tratta di un segnale di forte discontinuità con le tradizionali raisons d’État della politica estera di un importante Paese europeo? Oppure si profilano nuovi obiettivi di “interventismo” italiano, con il naturale e necessario avallo degli Usa, in aree del Mediterraneo dove ultimamente si è instaurata una fortissima presenza russo-turca?

Delle due l’una: noi speriamo che la seconda ipotesi sia quella prevalente. Nella prima ipotesi infatti è difficile pensare che una seppur riconosciuta figura di primo piano dell’economia mondiale possa modificare i felpati metodi delle diplomazie europee, che soprattutto attraverso il “non detto” sono riuscite negli anni a far affari anche con il diavolo.

Il linguaggio non è tutto in politica, ma lo è nella diplomazia.

Pretendere comunque che Draghi possa fare anche il ministro degli Esteri a tempo pieno è un po’ troppo. Forse anche per lui.

gi.2doc