Il Kenya, un paese con oltre 46 050 302 milioni di persone, ricco di risorse territoriali, idriche e climatiche, risulta particolarmente attrattivo in un settore sopra gli altri: quello floro-vivaistico. Questo business garantisce la sopravvivenza di oltre 2 milioni di persone, richiamando centinaia di investitori stranieri per oltre 500 milioni di dollari annui. 

Essendo uno dei maggiori produttori di fiori (per il mercato europeo), ed in particolare di rose (a livello mondiale), non sorprende che tale produzione sia finita nelle mani di grandi multinazionali che hanno sfruttato tutte le risorse disponibili, ed il cui prezzo è stato pagato da migliaia di minori e donne in stato di necessità e privi di alcun potere contrattuale.

 Episodi di violenza fisica, psicologica e sessuale che tristemente riproducono moderne forme di caporalato: ecco le condizioni in cui versano gli operai kenioti, senza un lavoro a tempo indeterminato e con un guadagno all’incirca di un terzo di un centesimo per ogni rosa raccolta, per un totale di 40 euro al mese. Lavoratori locali a basso costo pagati a cottimo, soprattutto donne (la categoria più vulnerabile, che in questo paese non ha nemmeno accesso al diritto ereditario su terre ed altri tipi di beni), e minori di ogni età, soprattutto tra i 5 e i 17 anni. 

Il fenomeno si concentra nelle aree rurali del paese, soprattutto in prossimità dei grandi laghi, ad esempio la zona di Naivasha, dove è situato un lago che porta lo stesso nome, che favorisce sufficiente irrigazione per le coltivazioni, oppure la zona di Kisumu, dove è situato il lago Vittoria.

Lo sfruttamento idrico ha naturalmente causato problemi ambientali di ampia portata, come l’inquinamento causato dalle acque di scolo che contengono molti fertilizzanti chimici, o il dissesto stesso dei laghi causato dalla necessità di 7 litri di acqua al giorno per ogni metro quadro di rose coltivate, una quantità tale da indurre l’abbassamento della superficie lacustre; altra pesante conseguenza è l’estinzione delle specie in esso viventi. L’acqua contaminata inoltre viene spesso usata per dissetare il bestiame, portando alla morte di molte vacche.

 Proprio in queste aree vengono costruite numerose serre ad un’altitudine ottimale per la coltivazione delle rose (circa 1750 metri sopra il livello del mare, affinché le piante abbiano una resa maggiore), che poi verranno trasportate, grazie alla logistica delle multinazionali, direttamente sulla piazza olandese.  I fiori raccolti in Africa vengono trasportati via aerea, (di notte per via delle condizioni climatiche più favorevoli), con costi di spedizione elevati di 2 euro al kg. Le rose vengono impacchettate in grandi quantità nelle scatole e posizionate in celle frigorifere alla temperatura di 40 gradi.

Lo sbarco degli aerei che trasportano fiori è previsto ad Aalsmer, in Olanda. Da qui le rose vengono portate all’asta di Flora Holland, una delle quattro più prestigiose al mondo che si occupano della vendita di fiori da taglio. I prezzi variano dagli 8 cent ai 25 euro. Il periodo di maggiore vendita è l’inverno, essendo la coltivazione dei fiori impraticabile in Europa. L’Italia acquista le rose dall’Olanda e la maggior parte dei compratori sono grossisti e dettaglianti. Trasportati da un Paese all’altro, i fiori perdono il loro valore, poiché risulta difficile sapere se sono certificati con Fair Trade; tutti i passaggi avvengono ad un ritmo tale per cui non si ha il tempo di soffermarsi sulla loro qualità e provenienza. 

Negli ultimi anni alcune multinazionali hanno provveduto a conseguire il suddetto certificato Fair Trade, sebbene molte di esse riescano ad ottenerlo per vie traverse, sfruttando certificati di fatto fittizi e continuando, in molti paesi, a seguire la strada dello sfruttamento umano e ambientale. Questa invasione economica di denaro straniero danneggia le popolazioni rurali vulnerabili, ed al contempo la  detassazione incontrollata favorisce lo sfruttamento di manodopera, trattandosi di zone afflitte da guerre e riciclaggio di denaro sporco. 

Ad oggi, sebbene siano stati fatti alcuni tentativi, non ci sono forti evidenze di pratiche virtuose e concrete che migliorino  le condizioni dei lavoratori e favoriscano anche l’introduzione di macchinari avanzati: solo così si potrebbe agevolare la raccolta dei fiori, riducendo i costi di trasporto da una parte all’altra del mondo e quindi anche l'inquinamento atmosferico.

Il lavoro minorile è tra le prime cause della dispersione scolastica ed è dannoso per lo sviluppo fisico, mentale, sociale e morale del bambino. Nel 2015 l’UNICEF contava che più di 1,2 milioni di bambini in età scolare in Kenya non frequentava la scuola, mentre l’UNESCO che il 23% dei bambini kenioti tra i 7 ed i 14 anni abbinava un lavoro alla presenza scolastica.

Nel 2020, la chiusura delle scuole ha interrotto l'apprendimento per oltre 17 milioni di bambini, che hanno perso più di sei mesi di istruzione formale e affrontato maggiori rischi di violenza.

A tutti i problemi cui accennavo, si aggiungono l’inadeguatezza delle autorità locali e del privato sociale nella prevenzione e lotta al lavoro minorile e nel sostegno/reinserimento delle vittime, oltre all’insufficiente responsabilità sociale delle aziende locali e alla mancanza di partenariati tra pubblico e privato nella lotta al lavoro minorile.

Non è una novità che circoli viziosi di sfruttamento affliggano paesi già di fatto in posizione di svantaggio, come il continente africano. Sebbene il decentramento produttivo non sia una pratica per sé da condannare se condotta in modo etico, rispettoso dei diritti umani e sostenibile, tuttavia la “cattiva globalizzazione” continua a prevalere, affermando in ancora troppi casi il primato del profitto ad ogni costo, senza riguardo per chi, quel prezzo, lo paga ogni giorno sulla propria pelle. 

 

Carlotta Biggi