di Ruggero Morghen

 

 

La recentissima “Dilexi te” di Leone XIV non è un’enciclica sociale ma un’esortazione apostolica, ossia – come chiarisce lo storico Roberto de Mattei – “un documento pastorale, che non definisce dei principi, ma esorta a un comportamento”. In essa non poteva certo mancare il manifesto programmatico del nuovo pontefice: quella dottrina sociale della Chiesa che ha condizionato la scelta stessa del suo nome pontificale (lo nota Nico Spuntoni parlando però, non senza malizia, di “ultimo documento di Francesco”). Nel suo messaggio al collegio cardinalizio il papa neoeletto rivelò infatti: “Ho pensato di prendere il nome di Leone XIV: diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII con la storica Enciclica Rerum novarum affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale”. Papa Pecci avvertì un grande movimento storico e volle che la Chiesa fosse presente in esso. 

Le tesi della Rerum novarum produssero davvero un grande effetto storico, come ricordava Gianni Baget Bozzo, con “la nascita dei sindacati e dei partiti cattolici e la stagione delle democrazie cristiane”. Da un po’ di tempo, però, di papa Leone XIII non se ne parlava molto, se non nei convegni degli storici, in qualche evento commemorativo o nelle riviste d’area. Ora si può forse osare di più. In questo clima di revival, fin che dura, è lecito se non opportuno ripescare un lontano, piccolo episodio che ebbe per protagonista proprio il papa di Carpineto Romano. 

Lo racconta Ugo Ojetti in un testo che – come osserva Alberto de Luigi – fa respirare la piacevole aria degli elzeviri della nobile tradizione italiana, quelli dagli anni Trenta a prima del '68, cioè quelli degli Ojetti, dei Barilli, dei Vergani, che da ogni occasione (commemorativa, patriottica, sociale) sapevano far scaturire i collegamenti ad un intero mondo di persone e di idee, o importanti e durature o anche minori od effimere, ma che comunque avevano avuto un momento di significato se non di gloria”. 

Dunque il ragazzino Ugo Ojetti (siamo verso il 1885) fu incaricato di scortare in Vaticano una grande statua in legno dipinto di san Luigi perché papa Leone la benedicesse. Era “vestita di vera saia nera, col costume dei gesuiti e la fascia alla cintola” e l’aveva fatta scolpire per sottoscrizione lo stesso Ojetti con altri congregati. Il piccolo Ugo venne incaricato anche di pronunciare davanti al papa e alla statua l’elogio di san Luigi scritto da padre Vitelleschi, il quale era “in latino e in italiano, in prosa e in versi, uno scrittore castigato ed eloquente”.

Dalla sua poltrona dorata, “i piedi sopra un cuscino di velluto bianco”, papa Pecci fece al ragazzino molte lodi, finite le quali fiutò un poco di tabacco e consegnò al piccolo lettore “una scatoletta di carta bianca cogli angoli rinforzati di carta verde”. Appena potè, ritraendosi tra i prelati, il futuro giornalista-scrittore aprì la scatoletta misteriosa, scoprendovi nell’ovatta “una medaglia d’argento larga quanto uno scudo, e sulla medaglia un ritratto”. “Per le scale – così si conclude il suo racconto – potei leggere quel ch’era inciso intorno al volto sulla medaglia. Era una medaglia di Pio nono. Sette od otto anni dopo la sua assunzione al pontificato, Leone decimoterzo distribuiva ancora, per economia, le medaglie coniate dal suo predecessore. Padre Vitelleschi, mettendomi una mano sulla spalla, m’avvertì: Certo è stato uno sbaglio. Pausa. Aggiunse in fretta: Uno sbaglio del monsignore, e rideva con un’aria di tranquilla semplicità che mi piacque”.

Fin qui la simpatica rievocazione di un tempo assai lontano, che non ha alcuna pretesa di attualità a meno che – con una malizia di cui neppure Nico Spuntoni sarebbe capace – non si consideri l’esortazione apostolica “Dilexi te” alla stregua di una simbolica medaglia distribuita da Leone XIV per far economia ma coniata, alla fine della fiera, dal suo predecessore.

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