di Ruggero Morghen



Èufficiale: la cucina italiana entra nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità, prima cucina al mondo ad essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo all’unanimità, com’è noto, il Comitato intergovernativo dell’Unesco riunitosi a New Delhi, in India. Secondo questa decisione la cucina italiana è “una miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. 

È una notizia che fa felice gli italiani ma anche Tahar Lamri, che è algerino ma vive in Italia, precisamente a Ravenna, da molti anni. Traduttore, scrittore, esperto di politica internazionale, Lamri scrive sul Manifesto e su Internazionale e ha lavorato in teatro con un vecchio amico di Michele Serra: Luigi Dadina, che - rivela lo stesso Serra - “è eccellente uomo di palcoscenico, e tanto mi basta per considerare con rispetto il suo lavoro”. 

Ultimamente a Moncalieri, vicino a Torino, per uno spettacolo che aveva alle Fonderie Limone,  Tahar Lamri si è fermato in una trattoria. “Prendo qualcosa di semplice – racconta -: pennette al pomodoro. Ma quel semplice pomodoro aveva qualcosa di divino. Vado a complimentarmi con la cuoca e lei mi risponde: Sono calabrese! – come se fosse una garanzia, un certificato di autenticità per una squisita salsa di pomodoro. Come se calabrese fosse una scuola di pensiero filosofico applicata al sugo. In quel caso – conclude Lamri - lo era”. 

Il breve racconto fa tornare alla mente un’analoga esperienza culinaria vissuta, or son molti anni, dal poeta triestino Umberto Saba, quand’egli era ancora assai giovane. Quel che più splende nella memoria dello scrittore ormai anziano è infatti ancora un piatto di pasta al pomodoro servitagli da Rocco Pesce. Si trattava di una minestra sontuosamente condita che al giovane triestino, che allora aveva appena vent’anni, apparve come una purpurea meraviglia. “Quel piatto – ancora vivamente ricorda – sembrava una bandiera trionfale”. Era semplicemente preparato all’uso meridionale ma il candido Umberto, rapito, pensò fosse addirittura una nuova invenzione (l’ennesima) di Gabriele d’Annunzio: l’Imaginifico, il Bianco immacolato signore di cui fu ospite nella memorabile settimana dannunziana della sua “giovanezza”. 

Siamo in Versilia all’inizio dello scorso secolo, nella villa del poeta abruzzese. Saba ha vent’anni, d’Annunzio quaranta. Mezzano dell’incontro era Gabriellino, figlio primogenito di d’Annunzio che allora abitava, come Saba, a Firenze.  A lui, dunque, va in definitiva il merito di quella scoperta culinaria, di quella “purpurea meraviglia” che dopo più di cent’anni conquisterà un altro scrittore proponendosi come qualcosa di semplice e, insieme, di divino.