Il titolo ci introduce in un argomento: il fenomeno del trasformismo dei rappresentanti delle istituzioni, che non riguarda solo l’attuale sistema politico.

Un genere vecchio di ben 150 anni: iniziò infatti con il governo Depretis. Ma che ha trovato  la sua massima espressione in questo ultimo trentennio parlamentare. Un arma letale per i governi, spesso alla mercé di pochi deputati e soprattutto (essendo in quel ramo le massime criticità nella tenuta delle maggioranze)di due o tre senatori, decisivi per tenere in piedi i governi.

Ora comincia ad andare di moda il trasformismo dei partiti.

Ci ha pensato Giorgia Meloni a inaugurare questa nuova tendenza.

Se pensiamo con quale veemenza ha condotto tutta la sua campagna elettorale e agli strali che mandava dell’opposizione contro scelte ritenute irrazionali o assai opinabili e a come invece, appena conquistata la responsabilità di capo del governo, ha operato una fulminea torsione identitaria, pur non abbandonando talune scelte normative o prese di posizioni, che strumentalmente sono servite e servono ad accontentare un elettorato più fedele ai valori della destra ideologica, e una classe dirigente non adusa a linguaggio felpato del potere, più vicina alla linea del predecessore Draghi in un quadro di ritrovato europeismo e un aplomb più istituzionale(nel quadro di un progetto, non dichiarato di conquistare buona parte dell’elettorato di centro) fino a trovarsi contro persino i suoi sodali più stretti, Orban e Morawiecki in Europa e Salvini negli affari interni.

Il fatto è che questa tendenza ha finito per contagiare anche altre forze politiche.

Così è tutto un fluttuare tra politiche annunciate e pratiche parlamentari.

Non diversamente può leggersi la dissonanza tra l’aperta linea pacifista del Pd della Schlein e il sostegno alla linea governativa di continuare ad inviare armi all’Ucraina.

La rigorosa linea di Conte, sempre teso a fare chiarezza sulle vicende del paese e la dissonante opposizione alla commissione d’inchiesta per fare luce sulla gestione governativa delle scelte connesse ad arginare la pandemia da Covid 19.

La disimmetria tra la linea lealmente europeista di Tajani e il suo sostegno sempre più convinto alle posizioni non del tutto adesive della premier Meloni verso le scelte della Ue.

Anche il nostro partito ha finito per restarne ammaliato.

C’è, infatti, da qualche mese, ossia da quando si è concluso il XX Congresso della Democrazia Cristiana,qualcosa che non torna nell’indirizzo impresso dalla nuova segreteria.

L’impressione non è isolata.

Più di qualcuno si sta chiedendo dove volge il partito e quali contenuti politici sta elaborando, non essendo allo stato emersa alcuna linea sui temi cruciali che devono guidare il partito.

Eppure non era stato da poco lo sforzo di chi, adempiendo al compito affidatogli dal Consiglio Nazionale di delineare in seno ai lavori dell'assise congressuale i tratti essenziali su cui innestare i diversi contenuti programmatici, aveva creduto fortemente in quel lavoro preparatorio, come base essenziale su cui costruire la linea programmatica.

Quel lavoro al momento pare sia rimasto nel cassetto, mentre lo sforzo da parte della segreteria sembra essersi concentrato solamente sull’organizzazione nel territorio.

Il fatto è che procedendo di questo passo si accede ai vari ambienti e realtà socio-economiche senza una precisa connotazione  programmatica che renda chiara quale visione del paese si è adottata e si vuole perseguire.

Con il rischio di trovarci cucito addosso il riflesso degli effetti delle scelte politiche che, per assimilazione, quasi automatica, alla coalizione di centrodestra cui - ora, per un motivo, ora per un altro, anche se non poco ha giocato l’obiettiva difficoltà di raccolta delle firme - si sta volgendo da un paio di anni l’interesse, ancor prima che il segretario ne fosse investito formalmente, in tutti i momenti elettorali che man mano si sono dipanati in concomitanza con le diverse scadenze piccole e grandi dal 2021 in poi (mentre alle politiche nazionali il partito ha scontato una trattativa rescissa all’ultimo momento per l’intesa Renzi-Calenda, mettendo in campo il cosiddetto terzo polo). 

Eppure non solo in occasioni di convegni e interviste, ma in seno alla massima assise, ossia nel Congresso dello scorso maggio, resta vivo nelle nostre menti il forte richiamo del segretario nazionale, appena eletto, al popolarismo sturziano e la rivendicazione di mantenersi distante da populismi, sovranismo e demagogie cangianti che invece da più di un lustro, con l’eccezione del governo Draghi, dominano gli indirizzi politici governativi.

Mentre sembrano ignorarsi i fermenti e le occasioni per la ricerca di una identità che riconduca tutto il florilegio di ideali e i diversi filoni (che dal 1994 in poi hanno finito per perseguire orizzonti contrapposti) alla matrice originaria, con una  rinnovata lettura della società odierna, che invece non si farebbe fatica a ritrovare nei tanti eventi di questi mesi in cui sembra essersi accentuato uno scatto di orgoglio identitaria soprattutto nell’area del popolarismo, con la fuoriuscita di esponenti di primo piano dal Pd.

È proprio di questi giorni l’iniziativa di Fioroni di lavorare per trovare rinnovata identità a tutta quella schiera di popolari che la segreteria Schlein, ha reso obiettivamente incompatibili con le politiche di accentuazione del raggio dei diritti civili spesso in conflitto con la base dei valori riconducibili alla cultura di provenienza dei tanti amici che avevano scelto il Pd come alfiere di un riformismo popolare-progressista. 

Resta però il fatto che anche l’iniziativa di Fioroni,seppur di ampio respiro, non si iscrive nella mission che invece dovrebbe stare a cuore alla DC e a tutti i democratici cristiani, di ritrovare una linea di dialogo e di convergenza programmatica e di collocazione che sia la giusta premessa per la ricomposizione dell’area sotto l’egida dello storico scudo crociato.

A tal proposito, ha scritto su Il Domani d’Italia di ieri, Giuseppe Davicino:

Lo stato dei partiti attuali dipende dalla personalizzazione della politica, che è stata introdotta negli anni novanta con le elezioni dirette di sindaci e presidenti negli enti locali, e con il maggioritario per le elezioni parlamentari.

Un lucidissimo Guido Bodrato già nel 1993 denunciava il fatto che tali riforme elettorali avrebbero portato ad una progressiva sostituzione delle gerarchie politiche con le gerarchie economiche. Eppure anche per i Popolari non c’è altra strada che passare attraverso l’attuale frammentazione e personalizzazione della politica per perseguire lo scopo di ricostruire un grande partito di centro, culturalmente plurale tra culture politiche compatibili, dotato di democrazia interna effettiva, e dunque anche contendibile. Una presenza da rilanciare con l’organizzazione unita ad una costante capacità di elaborazione politica. Più che agli organigrammi è tempo di pensare alle idee e a come farle circolare. Più che del manuale Cencelli si avverte  la necessità dello spirito del Codice di Camaldoli, al cui 80° anniversario la Fondazione Donat-Cattin ha dedicato un recente convegno di approfondimento.”.

Considerazioni che - seppur sembrano trascurare la causa comune che da tempo spinge i diversi protagonisti della diaspora ad una auspicata ricomposizione nel segno di una comune riproposizione in chiave attuale del patrimonio ideale e di valori del partito - lasciano avvertire la comune esigenza  di non trascurare le connotazioni programmatiche.

Per contro nessun cantiere in atto finora si è visto negli Organi statutari a ciò deputati, mentre ai pur necessari obiettivi organizzativi non si accompagnano, in concomitanza, altrettanti per la stesura programmatica secondo i diversi settori che investono la progettualità generale e particolare che ogni partito ha il compito di elaborare come imprescindibile strumento identitario, per non cadere nella genericità e nell’improvvisazione.

Un rapporto tra idee ed azione che deve trovare coerenza e fattibilità in un quadro solidarista, con al centro la persona, la famiglia, il lavoro ed un fisco equo.

Insomma un progetto politico del partito in continuità con i valori primari che lo hanno, dalla sua genesi, orientato.

Quello che si può trarre come conclusione è l’impressione, non troppo velata, che questa segreteria sia risoluta nel giocarsi la partita delle europee nella chiara determinazione di non puntare sulla scommessa, che dal XIX Congresso fu avviata, di una posizione distinta e distante dalla sinistra demagogica e libertaria e dalla destra sovranista e populista, ma di andare collateralmente al traino delle coalizioni di centrodestra, privilegiando collocazioni ancillari e marginali.

Una scelta che quasi tutta la parte storica del partito non sembra riuscire a condividere.

Non trascurando il fatto che la nuova nomenclatura del partito, costruita principalmente attorno a personalità, illustri, ma che difficilmente possono disfarsi di un pregresso bagaglio identitario su posizioni, che li ha visti protagonisti di posizioni ora di difesa politica marcatamente forte sui diritti dei singoli (no vax) in conflitto con esigenze precipue del bene comune (entrambi diritti costituzionalmente garantiti dove lo sforzo della mediazione, non solo del governo dell’epoca, doveva trovare la massima espressione) ora di militanze di chiara impronta liberista, entrambe legittime, che vanno rispettate, perché anch’esse non fanno che cogliere aspetti della società, che ben si iscrivono nell’alveo del pluralismo, patrimonio storico del partito, ma che non appaiono come il miglior accredito per proporsi, in questo fase politica, come pontieri per una mediazione sia nel quadro delle nuove prospettive di alleanze in vista della prossima legislatura, sia, guardando al nostro paese, con tutta l’area della diaspora democristiana, a cominciare dai popolari( quella più in fermento in questo momento)per una soluzione di comune convergenza verso il partito, in una chiara posizione di baricentro tra le due coalizioni.

Anzi con la collocazione nei posti chiave, di personalità così identitariamente connotate, si rafforza l’impressione che stia prevalendo una visione personalistica del partito, che rischia di trasformarsi in mero comitato elettorale, puntando sempre meno sulle occasioni di dibattito interno, volto più alla ricerca di qualche scranno nelle istituzioni( a cominciare dal parlamento europeo) anziché costruire un partito a lungo respiro che riporti equilibrio e coerenza nel sistema politico interno e non crei ambivalenza di linea nel quadro europeo.

Posta in chiave strumentalmente più utilitaristica( ma non dovrebbe essere il nostro modo di ragionare) c’è da chiedersi se le nostre candidature si dovessero costruire ricorrendo a personalità, caratterizzati da forti capovolgimenti identitari, quali aspettative potremmo coltivare circa l’affidabilità progettuale e l’effettività di quei valori che la DC, attraverso il suo prezioso pluralismo interno, ha rappresentato e che si vogliono rimettere in campo in coerenza con un’aggiornata visione del paese e del suo sviluppo equilibrato e sostenibile?

Certo, nessuno si nasconde il cielo con un dito.

Se da una parte potranno apparentemente trarsi sufficienti consensi per il raggiungimento di quel minimo elettorale in grado di conquistare qualche rappresentanza, dall’altra questa artificiosa operazione potrebbe trasformarsi in una vittoria di Pirro, finendo per vanificare la ricerca di un consenso solido e autonomo che fondi il proprio accreditamento su un progetto di paese che in filigrana non abbia rifrangenze demagogiche o populiste.

Qui non è in gioco la legittimità di chi iscrivendosi al partito eserciti un proprio diritto di elettorato passivo in concomitanza con la scelta degli organi a ciò deputati.

Il problema sorge se di questi casi se ne fanno i portabandiera di un progetto politico che coinvolge in toto il partito, la sua storia e le sue ramificazioni territoriali.

Vien da chiedersi, e da chiedere ai nostri massimi dirigenti, se davvero si abbia in proposito. o in pectore di procedere con simili modalità elettorali, rischiose per il futuro, in continuità, del partito, esponendoci a quell’elettorato ( più vicino al quadro di valori, che da sempre ha caratterizzato la DC) cui potrebbero indurre perplessità e diffidenza, perché ancora troppo soverchiante e abbastanza recente un certo protagonismo “antisistema”, o una militanza pregressa ben connotata, almeno per come molti li abbiamo percepiti, con il rischio di perdere l’occasione per costruire un’autentica alternativa di centro che ancora manca, a tutto vantaggio delle estremizzazione ancora più accentuata del sistema politico.

Peraltro in questo quadro come in una sorta di gioco magico il partito che c’è finisce per non identificarsi con quello che si percepisce, con il rischio di connotarsi di perniciosa ambivalenza identitaria.

 

Luigi Rapisarda