La questione climatica è terribilmente seria. Lo è non perché, ora, ne parlano tutti, anche troppo, o perché la giovane Greta Tunberg riesce a coinvolgere migliaia di persone nella sua crociata. Lo è perché matura da più di mezzo secolo e nessuno se n’è accorto o non se ne è voluto accorgere.

Le mutazioni climatiche sono una cosa troppo seria per farne spazzatura pubblicitaria o esca per protagonismi politici di bassa lega. La spettacolarizzazione non giova alla verità e non aiuta alle soluzioni.

A fronte delle previsioni drammatiche della scienza, la politica risponde in modo ambiguo, oltre che tardivo. Il G20 e la Conferenza sul Clima delle N.U. a Glasgow lo dimostrano con tutta evidenza.

Occorre tener presenti due aspetti importanti.

Il primo è che si è alla fine di una piccola epoca post glaciale e il riscaldamento della superfice terrestre creerà certamente molti problemi di desertificazione ma anche prospettive di temperamento del clima nelle regioni artiche (Canada, Siberia). Una rivoluzione imponente. Lo studio delle mutazioni climatiche ha rilevato che nel corso dei millenni, il Sahara era un oceano, il deserto dei Tassili un territorio verde come la Groenlandia (c’era addirittura una sede vescovile della Chiesa di Roma).

Queste mutazioni si sono prodotte con i ritmi della natura. Sono inarrestabili ma, cicliche, su secoli e migliaia di anni. Possiamo farci poco.

L’umanità, sul pianeta, in quest’ultimo secolo, ha fatto di tutto per devastarlo e danneggiarlo, sprecando risorse, inquinando l’atmosfera, creando arcipelaghi di plastiche indistruttibili negli oceani, con gli incendi dolosi e la deforestazione. Si può tornare indietro, anzi, si deve tornare indietro, ma a carissimo prezzo.

Il secondo aspetto è che le soluzioni proposte, necessarie e improbabili, allo stesso tempo, sono:

a - un impulso decisivo alla forestazione (ma come la mettiamo con gli incendi dolosi?);

b - il blocco graduale dell’utilizzo del carbone come materia prima energetica per ridurre le emissioni di anidride carbonica.

Vediamo perché.

La forestazione esige tempi relativamente lunghi. La natura deve seguire il suo corso. Non ha fretta. La decarbonizzazione esige tempi lunghissimi. Russia, Cina, India parlano di 50/70 anni, forse un secolo.

Abbiamo tutto questo tempo? A sentire Biden, Draghi, Jonhson, l’Unione europea e le Nazioni Unite, la situazione è pressoché catastrofica. Bisognerebbe provvedere entro venti, trent’anni per avere dei parziali effetti positivi da queste misure.

Ammettiamo che sia così. L’Occidente che adottasse le vaghe misure contemplate da questi recenti consessi internazionali rappresenta solo 15/20% della responsabilità globale del dissesto climatico attuale. Il resto dipende dalla Cina, dall’India e dalla Russia che non vogliono sentir parlare di date a breve scadenza. Forse, se la situazione dovesse degradare, cambierebbero opinione, ma al momento la situazione è quella descritta.

Quanto può influire l’Occidente per contrastare il cambiamento climatico? Poco, pochissimo. Occorre farlo, beninteso, ma è una goccia nel mare.

La scienza ci dice che il progressivo riscaldamento del pianeta porterà allo scioglimento dei ghiacci con un innalzamento del livello degli oceani. Di quanto? Si parla di un metro o un metro e mezzo. Un vero disastro. La scienza preconizza anche uragani, movimenti sismici, piogge torrenziali, venti furiosi, tornado e così via.

Ma fermiamoci agli oceani. Un solo metro in più sconvolgerebbe la situazione attuale del sistema costiero, degli arcipelaghi e delle isole. Quanta terra sarà sommersa? Dove andranno le popolazioni cacciate dal mare?

Questo è il vero problema. Si parla di palliativi, non della sostanza.

Forse non vedremo questi accadimenti, ma se gli scienziati hanno ragione, potrebbero esserci. Che fine farà Venezia? E gli arcipelaghi, l’intero Bangladesh, il Quatar, tanto per fare alcuni esempi? La vita si sposterà all’interno, sulle colline, verso il Nord che sarà più temperato. Qualcuno pensa a come organizzare le evacuazioni? No, è fantapolitica. Queste cose si faranno, al solito, tardi e male. Altro che le migrazioni che conosciamo!

A fronte di questo terribile scenario impazza il mercato della cosiddetta “transizione ecologica”, erede della precedente “economia sostenibile” che, poi, sostenibile non è stata. Che vuol dire? Solo che si lucra sul disastro.

I cortei che seguono la Greta Tunberg sono espressione di una vera preoccupazione ecologica oppure solo il frutto di una moda? Chi c’è dietro questa massa di protestanti verdi, chi paga i viaggi aerei, i pasti, gli alberghi, gli striscioni, le bandiere? Dove comincia l’affare e finisce l’entusiasmo ingenuo di una gioventù che critica l’incapacità o l’insensibilità dei governanti del nostro pianeta?

La questione ecologica è grave, anzi gravissima. Lo sviluppo della nostra società ha preso un binario sbagliato e rischia di deragliare: troppa carne, troppa benzina, troppi consumi inutili, troppe diseguaglianze. Occorre un binario diverso oppure l’alta velocità si fermerà contro un muro d’acqua.

A proposito dell’acqua, che scarseggia sul pianeta, la sprechiamo ogni giorno a casa nostra, ma un miliardo su sette di essere umani non ha accesso all’acqua. Per fare una fetta di pane ne occorrono 40 litri, 5.000 per un kg di formaggio, 16.000 per un kg di carne di manzo. Mangiamo carne e la gente muore di sete. Lo si capisce che siamo su un binario sbagliato?

Quale dei politici di tutto il mondo se la sente di rimettere in discussione questo sistema di vita? Le preoccupazioni espresse a Roma e a Glasgow sono davvero sincere?

Non sono convinto che la fine dell'umanità sia sarebbe prossima. Il mercato della transizione ecologica fa intravedere futuri catastrofici (e profitti conseguenti). Ci saranno cambiamenti terribili, questo sì, e concentrare tutto sulla scomparsa (ora impossibile) dell'uso del carbon fossile è una chimera.

 

Stelio W. Venceslai