Lunedì 23 luglio 1928 Gabriele d’Annunzio scrive al fedele Maroni, l’architetto del Vittoriale: “Caro Gian Carlo, con molta commozione apro ora una lettera di Alessandro Pozzi! Portagli questa mia. Egli è nella Taverna di Stani. Desidero proporgli di venire nella foresteria, dove è la stanza contigua all’appartamento con-ju-ga-le, col bagno. Ti prego di considerare la proposta, insieme con lui. Ci sarà – da parte mia – tutto quel che occorre. Credo che la Taverna non sia luogo adatto per un convalescente ancora dolente. Abbraccialo per me. Gabriel”.

Il messaggio è su carta recante il motto “Io ho quel che ho donato”. Il poeta aveva letto per la prima volta il motto inciso sulla pietra del camino di una casa nobiliare e ne aveva scritto alla contessina Alessandra Porro, figlia del generale Carlo (Milano, 1854 – Roma, 1939) e crocerossina volontaria a Fiume, dove fondò la Casa del soldato e lavorò per molti mesi “con le vesti a lutto per la morte del fidanzato, l’eroico Fulcieri Paulucci de’Calboli, medaglia d’oro”, come ricorda Luisa Zeni. “Penso per Lei – le aveva scritto - quel meraviglioso motto italiano del 400, ch’ebbi la ventura di scoprire inciso in una pietra di focolare”. In realtà il motto è la traduzione del verso di Rabirio “Hoc habeo quodcumque dedi”, ripreso da Seneca nel De beneficiis (VI, 3, 1) e diffuso nel XV secolo, spesso abbinato alla cornucopia quale simbolo di abbondanza.

Gli Archivi del Vittoriale ospitano inoltre – ancora con riferimento al Pozzi, sansepolcrista e legionario fiumano - una lettera autografa di d’Annunzio ad Antonietta Treves. La missiva, sempre su carta recante il motto “Io ho quel che ho donato”, è priva di data e recita: “Cara Nietta, stanotte, dopo il mio ritorno, ho conosciuto una orribile disgrazia. Per una caduta dal velivolo, un mio legionario fedele – Alessandro Pozzi – s’è ferito gravemente. È all’ospedale maggiore. Oggi debbo vederlo. Inoltre arriva il mio Architetto alle 16, con due persone che debbo vedere. Ecco in che modo santifico la Domenica! Sono molto triste. Ti bacio le mani. Ariel”. 

Significando la gratuità di un gesto che arricchisce invece di impoverire chi lo compie, il motto dannunziano “Io ho quel che ho donato” ha conosciuto nel tempo singolari sviluppi ed anche pratiche negazioni, in un’ispirazione francescana tuttavia sempre viva. Viva, ad esempio, in papa Ratzinger, che avanzava una richiesta ecologista proprio “sull’esempio di San Francesco”. Il papa tedesco, peraltro, - segnala il vaticanista Luigi Accattoli – era, almeno all’inizio, “alla ricerca di una sua misura” nelle uscite verso il mondo, incerto se “tornare alla sobrietà montiniana o azzardare una sua cifra”.

 

Ruggero Morghen