di Ruggero Morghen
“Un museo non inclusivo, ma accogliente”: così lo vuole e disegna il direttore Matteo Rapanà, che parla di una famiglia riunita attorno al MAG, acronimo di Museo Alto Garda. (Matteo non precisa che genere di famiglia è). Anche il sindaco di Riva Alessio Zanoni esulta per quello che, da bravo cattolico, definisce un piccolo miracolo.
L’occasione è offerta dall’inaugurazione della mostra “Ultimate landscapes. L’illusione del ghiaccio”, aperta in Rocca fino al prossimo 14 giugno e che, in un percorso multimediale, propone le opere del fotografo romano Claudio Orlandi intese come “un grido di dolore, un urlo, una piccola goccia nel mare”. L’esposizione è accompagnata dall’installazione sonora “Unveil” del musicista e sound designer Alessio Mosti: una parabola – così la presentano - che inizia e termina con il suono concreto del ghiaccio, ripreso tramite idrofoni e microfoni a contatto: “il suono ambientale viene elaborato spettralmente fino a diventare elemento primario della composizione musicale sia da un punto di vista armonico, sia ritmico”.
Alessia Locatelli, la curatrice (anzi: co-curatrice) della mostra aggiunge che “l’arte non dà risposte, però ti tocca il cuore”. L’esposizione è realizzata in collaborazione con la Provincia autonoma di Trento e col sostegno di Garda Cartiere, in occasione dell’International year of glaciers’preservation. Il tema affrontato, infatti, è quello dell’erosione delle masse glaciali, delle mutazioni del paesaggio montano, precisa l’avvocato Stefania Pellegrini, che nelle vesti di assessore comunale alla cultura loda la programmazione “ricca e diversificata” del MAG. Per la Stefania occorre superare una visione puramente antropocentrica della natura, aprendo a una nuova concezione degli elementi naturali come soggetti portatori di diritti (tema poi ripreso e condiviso dal primo cittadino rivano).
Il vernissage natalizio, dove anche il rinfresco offerto condivide un po’ il grido di dolore della mostra, offre alla neopresidente del MAG Alessandra Cattoi l’occasione della sua prima uscita pubblica. “Occuparsi anche di temi di attualità – rivendica – è un dovere del mondo culturale. E questa è più di una mostra: è un progetto che condivide l’idea secondo cui l’arte deve entrare nelle coscienze, ché non possiamo lasciarcela scivolare addosso”.
Le fotografie qui ritraggono luoghi estremi, spettacolari e vulnerabili, in cui l’elemento naturale si intreccia con quello umano: pieghe di teli, cuciture, superfici lacerate che si sovrappongono al ghiaccio in arretramento, diventando metafora di un tentativo di cura che è anche segno di fragilità collettiva. Le inquadrature di Orlandi, frutto di anni di spedizioni in ambienti remoti, testimoniano – conclude Rapanà - non solo un cambiamento fisico, ma anche simbolico: il paesaggio diventa documento, monito, memoria. Non una semplice raccolta di scatti, dunque, ma un grido silenzioso, un invito a ripensare il rapporto tra uomo e ambiente e ad assumersi la responsabilità del futuro delle montagne.


























