Signor Vice Presidente del Consiglio dei Ministri,
Lei, a nome del Governo, dovrà sostituire la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella cerimonia di inaugurazione della 86esima edizione della Fiera del Levante, la quale ha fatto sapere che era impossibilitata ad intervenire per la concomitanza di non meglio precisati altri impegni istituzionali.
Personalmente non credo che la Presidente del Consiglio non abbia potuto gestire diversamente la propria agenda, mentre ritengo che abbia voluto evitare l’inaugurazione della Fiera del Levante che, evidentemente, non ritiene meritevole di una vetrina nazionale, preferendo, mediaticamente più producente visitare Caivano e mostrare la durezza del decisionismo di Governo che promette “la bonifica”, sotto il profilo dell’ordine pubblico e della manutenzione delle aree a verde, oltre all’avvio di corsi di formazione, retribuiti, per gli “esodati” del reddito di cittadinanza.
Se è vero che la Meloni a Caivano ci ha messo la faccia, rischiando di fallire ove non si farà carico di una grande iniziativa che garantisca l’occupazione dei disoccupati, è tuttavia evidente che non ha ritenuto di rappresentare il Governo all’inaugurazione della 86esima Fiera del Levante di Bari, che, nel corso della sua lunga storia, ha visto la presenza del Re Vittorio Emanuele, di Presidenti della Repubblica e di Presidenti del Consiglio dei Ministri, per esaltare la rilevanza nazionale ed internazionale dell’esposizione fieristica barese.
Caro Vice Presidente del Consiglio,
come pugliese, pur apprezzando la Sua notevole esperienza di Governo, tuttavia Le devo rassegnare la delusione per il sostanziale disimpegno dell’intero Governo nei confronti del Mezzogiorno d’Italia.
Data la sua ormai lunga carriera parlamentare e di Governo, certamente conosce il crescente divario tra l’economia meridionale e quella del Settentrione, recentemente (2022) fotografato da una puntuale ricerca della Banca d’Italia.
La ricostruzione dei dati storici è impietosa: dopo l’esaurimento delle politiche di centro – sinistra del periodo 1960 – 1975, a guida morotea, il Mezzogiorno d’Italia ha mostrato una crescente difficoltà nel mantenere il passo della crescita con il Centro Nord, sistematicamente inferiore al resto del Paese ed ulteriormente frenata da un progressivo rallentamento dell’intera economia italiana.
I ricercatori della Banca d’Italia hanno rilevato che il rapporto tra il PIL per abitante del Mezzogiorno, che alla fine degli anni settanta aveva raggiunto il 60 per cento rispetto a quello del PIL per abitante del Centro Nord, alla vigilia della pandemia (2020) era crollato di oltre 5 punti, scendendo al 55 per cento.
Lo SVIMEZ, da parte sua, nella recentissima anticipazione del Rapporto per l’anno 2023, sottolinea che “il PIL del Mezzogiorno, nonostante la ripresa sostenuta, rimane ancora di oltre sette punti al di sotto del livello del 2008, da quando ha preso le mosse una lunga stagione di ampliamento dei divari territoriali”.
Inoltre, fatto 100 il dato di crescita del valore aggiunto extra-agricolo nel biennio 2021-2022, il contributo alla crescita dell’industria in senso stretto si è fermato a circa 10 punti nel Mezzogiorno contro i 25 del Centro-Nord; viceversa, nel Mezzogiorno le costruzioni hanno contribuito alla
crescita di ben sette punti al di sopra di quanto avvenuto nel resto del Paese per effetto delle molteplici misure di incentivazione che hanno drogato il settore (CFR superbonus in edilizia).
Nel centro nord cresce l’industria, ma nel Sud avanza solo l’edilizia, anche per effetto dei crediti di imposta cedibili, senza produrre una connessa industria servente.
Quando sarà soddisfatto tutto il fabbisogno abitativo, per una popolazione che diminuisce, cosa sostituirà l’attività edilizia?
In sintesi, il Mezzogiorno continua ad avere un passo di crescita annualmente inferiore rispetto al Centro Nord, aggravato dalla progressiva perdita dei suoi migliori giovani, che, per entrare nel mondo del lavoro fuggono dal Meridione per arricchire il capitale umano del Centro Nord e di altri Paesi europei.
Rispetto a questi dati inequivocabili, il Governo Meloni si pone in perfetta continuità con quelli che lo hanno preceduto (di destra e di sinistra) , dopo il 1981, all’indomani del divorzio tra il Tesoro (la Repubblica italiana) e la Banca d’Italia (“consorzio” di Banche private) e della creazione della BCE, sostanzialmente rinnegando l’impostazione keynesiana che aveva caratterizzato la politica economica degli anni 60 e 70.
Tutti i Governi successivi al 1981, sono stati imbrigliati dai vincoli monetari europei, esterni all’ordinamento italiano e costretti nella camicia di forza dello schema anti keynesiano di Hayek, sposato pienamente dall’Unione Europea che ha sostanzialmente vietato agli stati aderenti di intervenire con la propria spesa pubblica per correggere l’andamento dell’economia in quanto il libero mercato sarebbe sufficiente a garantirne l’equilibrio e la più bassa disoccupazione (ma non la piena occupazione).
Da ciò sorge l’esaltazione del principio di concorrenza e del libero mercato, senza moralità.
Tale prospettiva, tuttavia, è contraria ai principi fondamentali sui quali si fonda la Costituzione italiana che all’articolo 3, secondo comma, ha previsto espressamente che “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” .
Per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, occorre coraggiosamente rinunciare allo schema incostituzionale dell’autosufficienza del libero mercato e dei principi della libera concorrenza che non solo risultano incompatibili con la piena occupazione, ma impediscono di garantire soprattutto ai lavoratori meno istruiti (ma non solo a loro), di ottenere una “retribuzione “ “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost).
Rispetto a questo principio fondamentale della nostra Costituzione repubblicana, appaiono prive di senso le discussioni sul salario minimo, essendo evidente che è compito della Repubblica garantire che la retribuzione lavorativa sia conforme alla prescrizione costituzionale.
In caso contrario verrebbe minata alla radice la democrazia effettiva che sarebbe solo apparente in quanto, nella sostanza, risulterebbe impedita la partecipazione democratica, come disegnata dall’articolo 3 della Costituizione.
La regressione democratica del sistema politico italiano è del resto testimoniata dalla continua e progressiva diminuzione dei cittadini che partecipano alle consultazioni elettorali, malgrado la costituzione abbia espressamente previsto che l’esercizio del diritto di voto costituisce “un dovere civico”, che tuttavia può essere compiutamente esercitato soltanto in condizioni effettive di libertà e di uguaglianza che, la mancanza di lavoro, nega in radice.
Sotto tale profilo Aldo Moro, in occasione dell’inaugurazione della 28esima edizione della Fiera del Levante del settembre 1964, apriva la propria relazione rilevando che “questa Fiera è espressione di un’ansia profonda di giustizia e di progresso in un mondo capace di sviluppare una fitta trama di fervide intese economiche, culturali e politiche nella sicurezza e nella pace”.
Tale constatazione rifletteva l’esigenza di creare opportunità di lavoro ed occasione di profitto, a vantaggio di tutta la società Italiana e di quella del Meridione in particolare. Nell’ultimo ventennio, la Fiera del Levante, pur sorta per merito di intraprendenti imprenditori, ha perso progressivamente quella sete di giustizia e di progresso e, quindi, il valore simbolico e trainante per l’economia meridionale, nazionale ed internazionale, disperdendo le proprie energie in una serie di iniziative fuorvianti rispetto allo scopo principale per il quale fu istituita. La triste storia della progressiva decadenza della Fiera del Levante non può far dimenticare che nel dopoguerra e soprattutto nel quindicennio dal 1960 al 1975, tale istituzione aveva conquistato un elevato prestigio nazionale ed internazionale, divenendo l’appuntamento obbligato per Presidenti della Repubblica e Presidenti del Consiglio dei Ministri, che coglievano l’occasione per fare il punto della situazione politica ma soprattutto quello dell’economia nazionale.
La progressiva decadenza della Fiera del Levante riflette, in qualche modo, il continuo peggioramento, rispetto al Centro Nord, della situazione economica meridionale.
E’ noto, infatti che i dati macro economici attuali del Sud Italia rispetto a quelli del Centro Nord stanno rapidamente peggiorando e, pur con le dovute precisazioni, ben si può affermare che si sta allargando pericolosamente la forbice tra il PIL per abitante del Sud rispetto a quello del Centro Nord senza che le c.d. politiche di coesione siano in grado di invertirne la tendenza.
La situazione attuale in cui versa il Sud rispetto al Centro Nord, non è poi molto diversa da quella che trovò davanti a se Aldo Moro quando, come Presidente del Consiglio, venne invitato ad inaugurare l’edizione della 28^ edizione della Fiera del Levante (1964).
Moro, all’epoca, recependo chiaramente i suggerimenti dell’economista nato nella provincia di Sondrio Pasquale Saraceno, affermava che la politica meridionalista poteva essere attuata soltanto all’interno di una stabile espansione del sistema economico nazionale con “un ritmo costante, senza alternanza di periodi di prosperità e di recessione” il cui ordinato sviluppo era assicurato dall’azione monetaria e fiscale dei pubblici poteri.
In tale occasione, dopo aver rendicontato in merito a tutte le principali misure di Governo dell’economia, riferendo i risultati positivi raggiunti, Moro riconduceva espressamente a “moralità” il meccanismo dell’economia di mercato, “per integrarlo e correggerlo con la programmazione economica nazionale “colpendo “coloro che considerano il profitto come una rendita acquisita una volta per sempre e non vogliono adattarsi alle nuove circostanze”.
Lo strumento per realizzare tale moralizzazione dell’economia di mercato era la programmazione economica nazionale ovvero una “strategia generale di sviluppo” per la “eliminazione degli storici squilibri esistenti nella società italiana” attraverso un vigoroso e stabile sviluppo dell’economia nazionale, preceduto da incontri e confronti tra i poteri pubblici e le diverse categorie di imprenditori.
Con l’occasione fornita dall’inaugurazione della Fiera del Levante del 1964, Moro dichiarava il fine ultimo della sua azione di Governo: perseguire gli obiettivi per una società “umana e giusta”, “impegnata ad eliminare gradualmente inammissibili squilibri”. Moro, a nome del Governo, dichiarò solennemente che “nulla si lascerà di intentato per realizzare quella fondamentale uguaglianza di posizioni che si conviene ad una società democratica”, rivolgendosi, a nome del Governo, all’intera Nazione “per chiedere che essa sprigioni le energie vitali e le forze unitarie … per garantire un continuo sviluppo ed un degno avvenire al popolo italiano”.
Inaugurando la 28esima edizione della Fiera del Levante, Moro delineava l’obiettivo di una “società più ordinata e più giusta, nella quale nessuna posizione e nessuna libertà siano soffocate, ma anche nessuna mortificazione sia consentita. Una società nella quale nessun cittadino, nessun uomo, nessun lavoratore sia in qualche modo al margine della vita sociale, compresso nella sua iniziativa, escluso o solo avaramente partecipe della ricchezza, della cultura, della tecnica, dei beni dello spirito, della libertà, dell’attività e feconda partecipazione alla vita politica del proprio Paese”.
Nel 1964, per la prima volta nella storia d’Italia, dopo circa un decennio di intervento pubblico mediante la Cassa per il Mezzogiorno, il reddito medio nel Sud era cresciuto più di quello del Centro nord, riducendo in parte il grave squilibrio ed attuando una maggiore partecipazione del Mezzogiorno alla formazione del redditto nazionale complessivo.
Gli studiosi di statistica dei dati economici hanno confermato che nel quindicennio in cui Moro è stato ripetutamente Presidente del Consiglio o Ministro, il PIL del Meridione era progressivamente cresciuto fino a collocarsi al 60% di quello del Centro Nord.
L’inversione di tendenza, dopo l’assassinio di Moro, si è avuta in coincidenza con l’introduzione dell’euro e la progressiva riduzione dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno. Nell’ultimo quarto di secolo il PIL del Meridione ha perso numerosi punti percentuali rispetto a quello del Centro Nord e per il futuro non si intravede un mutamento della tendenza, che allontana sempre più il Meridione dal Centro Nord, così creando una frattura profonda nel sistema democratico e nella stessa coesione nazionale.
Osservando ciò che è avvenuto in Germania dopo la caduta del “muro”, ove sono state investite immense risorse pubbliche per eliminare gli squilibri esistenti rispetto all’intero territorio della ex DDR, in Italia, dopo la parentesi dei governi di centro sinistra, si è invece scelta la linea politica della maggiore divaricazione economica, sociale e democratica, tra il Centro Nord ed il Meridione.
Un indice significativo dell’aumento della distanza tra il reddito del Centro Nord e quello del Sud emerge dalla progressiva riduzione della spesa alimentare al Sud rispetto al Centro Nord; contrariamente a quanto ritenuto da un altro Ministro (Lollobrigida) dell’attuale Governo , i poveri non mangiano meglio dei ricchi se è vero che al Sud, più povero, la durata media della vita è nettamente inferiore a quella nel Centro Nord.
In queste condizioni si sta consolidando proprio ciò che Moro, da statista, da meridionale e da pugliese, voleva evitare: vale a dire l’accentuazione del divario tra Nord e Sud e la sostanziale negazione della democrazia nelle aree più povere del Paese per effetto della sempre più ampia marginalizzazione di uomini e donne, cittadini ed immigrati, privi non tanto del reddito individuale di cittadinanza ma della retribuzione lavorativa sufficiente a sostenere se stesso e la propria famiglia.
Se questa è oggi la situazione di progressivo indebolimento economico e sociale del Sud, da cittadino pugliese chiedo al rappresentante del Governo non solo e non tanto cosa pensa di fare, per favorire l’economia Italiana ma soprattutto cosa pensa di fare, il suo Governo, per recuperare gli squilibri esistenti al Sud rispetto al Centro Nord e se il Governo intende, a qualsiasi costo, riprendere una politica specialmente destinata a superare i motivi di arretratezza e povertà di ampie aree del Paese, caratterizzate da un minore sviluppo economico e culturale.
Signor Vice Presidente del Consiglio, la prego di rispondere pubblicamente a questa domanda nel modo che riterrà più opportuno, ma risponda.
E’ in gioco non tanto il suo prestigio di Ministro della Repubblica quanto la coesione della Nazione italiana e la tenuta del sistema democratico, destinato a disintegrarsi di fronte alla totale assenza di iniziativa politica che attui l’articolo 3 della Costituzione.
Giuseppe Mariani