L’unità. Su questo primo punto è decisivo precisare che quella europea non può essere un’unità uniforme, che omologa, ma al contrario dev’essere un’unità che rispetta e valorizza le singolarità, le peculiarità dei popoli e delle culture che la compongono. Pensiamo ai padri fondatori: appartenevano a Paesi diversi e a culture differenti: De Gasperi e Spinelli italiani, Monnet e Schuman francesi, Adenauer tedesco, Spaak belga, Beck lussemburghese, per ricordare i principali.
La ricchezza dell’Europa sta nella convergenza delle diverse fonti di pensiero e di esperienze storiche. Come un fiume vive dei suoi affluenti. Se gli affluenti vengono indeboliti o bloccati, tutto il fiume ne risente e perde forza. L’originalità degli affluenti. Bisogna rispettare questo: l’originalità di ogni Paese.
Questa è la prima idea su cui richiamo la vostra attenzione: l’Europa ha futuro se è veramente unione e non riduzione dei Paesi con le rispettive caratteristiche. La sfida è proprio questa: l’unità nella diversità. Ed è possibile se c’è una forte ispirazione; altrimenti prevale l’apparato, prevale il paradigma tecnocratico, che però non è fecondo perché non appassiona la gente, non attira le nuove generazioni, non coinvolge le forze vive della società nella costruzione di un progetto comune.
Ci domandiamo: qual è il ruolo dell’ispirazione cristiana in questa sfida? Non c’è dubbio che nella fase originaria essa ha giocato una parte fondamentale, perché era nei cuori e nelle menti degli uomini e delle donne che hanno iniziato l’impresa. Oggi molto è cambiato, certo, ma rimane sempre vero che sono gli uomini e le donne a fare la differenza.
Perciò il primo compito della Chiesa in questo campo è quello di formare persone che, leggendo i segni dei tempi, sappiano interpretare il progetto Europa nella storia di oggi.
E qui veniamo al secondo punto: la pace. La storia di oggi ha bisogno di uomini e donne animati dal sogno di un’Europa unita al servizio della pace. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa ha vissuto il più lungo periodo di pace della sua storia. Nel mondo però si sono susseguite diverse guerre. Nei decenni scorsi alcune guerre si sono trascinate per anni, fino ad oggi, tanto che si può parlare ormai di una terza guerra mondiale.
La guerra in Ucraina è vicina, e ha scosso la pace europea. Le nazioni confinanti si sono prodigate nell’accoglienza dei profughi; tutti i popoli europei partecipano all’impegno di solidarietà con il popolo ucraino. A questa corale risposta sul piano della carità dovrebbe corrispondere – ma è chiaro che non è né facile né scontato – un impegno coeso per la pace.
Questa sfida è molto complessa, perché i Paesi dell’Unione Europea sono coinvolti in molteplici alleanze, interessi, strategie, una serie di forze che è difficile far convergere in un unico progetto. Tuttavia, un principio dovrebbe essere condiviso da tutti con chiarezza e determinazione: la guerra non può e non deve più essere considerata come una soluzione dei conflitti (cfr Enc. Fratelli tutti, 258).
Se i Paesi dell’Europa di oggi non condividono questo principio etico-politico, allora vuol dire che si sono allontanati dal sogno originario. Se invece lo condividono, devono impegnarsi ad attuarlo, con tutta la fatica e la complessità che la situazione storica richiede. Perché «la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità» (ibid., 261). Questo dobbiamo ripeterlo ai politici.
Anche su questa sfida della pace la COMECE può e deve dare il suo contributo valoriale e professionale. Voi siete per natura un “ponte” tra le Chiese in Europa e le istituzioni dell’Unione. Siete per missione costruttori di relazioni, di incontro, di dialogo. E questo è già lavorare per la pace.
Ma non basta. Ci vuole anche profezia, ci vuole lungimiranza, ci vuole creatività per far avanzare la causa della pace. In questo cantiere ci vogliono sia architetti sia artigiani; ma direi che il vero costruttore di pace dev’essere sia architetto sia artigiano: così è il vero costruttore di pace.
Lo auguro anche ad ognuno di voi, ben sapendo che ciascuno ha i propri carismi personali che concorrono con quelli degli altri al lavoro comune.