di Stelio W. Venceslai
L’abbiamo ascoltato con simpatia umana e molta sufficienza, per dodici anni. Predicava pace, tolleranza, fraternità e carità verso tutti gli esseri viventi e per il nostro pianeta. In verità, lo abbiamo udito ma non ascoltato.
La sua morte improvvisa, dopo una lunga degenza che si sperava felicemente conclusa, stata una triste sorpresa per tutti. Stava male, ma fino al giorno prima si era affacciato a S. Pietro a salutare la folla dei fedeli.
Fino all’ultimo ha esercitato il suo magistero, fatto di parole semplici per farsi capire da tutti, non solo dai teologi, dagli intellettuali, dai Capi di Stato. Troppo semplice, quasi ovvio. Dopo Benedetto XVI era considerato un Papa di transizione, quello “venuto dalla fine del mondo”, un gesuita per la prima volta nella storia salito al soglio pontificio.
Ha testimoniato al mondo la forza del messaggio di pace evangelico che i Cristiani hanno sempre tradito, come gli altri, per interessi terreni. Homo homini lupus.
Ha ricordato l’unicità di un Dio, chiamato con vari nomi e venerato con pratiche diverse, ma sempre il Dio della comunità umana.
Come San Francesco, Papa Bergoglio ha parlato al cuore della gente di tutto il mondo. Non a caso il nome che scelse, divenuto Papa, è stato Francesco.
Sofferente, ha portato nel mondo il suo messaggio semplice e rivoluzionario: “siamo tutti fratelli su questo pianeta che dobbiamo conservare al meglio”.
Perbacco, ce lo dimentichiamo sempre che siamo fratelli, membri dello stesso genere umano. La maledizione di Caino ci perseguita fin dalle origini. Eppure, siamo tutti uomini e donne sullo stesso pianeta, una comunità divisa, feroce, assassina, per un principio ideologico, per un pezzo di terra, per un miserabile orgoglio.
Il suo essere cristiano era diverso, non altezzoso e dogmatico, ma semplice. Pensate a quando disse, ad un certo punto, nelle ricorrenti polemiche su certe posizioni pregiudiziali della stessa Chiesa: “Chi sono io per giudicare?”
Lo ricordo la notte di Natale, durante la pandemia. Sotto la pioggia, in una città morta, impaurita e nascosta. Lui era il simbolo testardo di una vita che doveva rinascere. Una figura impressionante di forza e di determinazione. Era la speranza, nonostante tutto. Altro che un uomo semplice!
Ha cercato di essere dovunque, nei consessi internazionali e nelle baracche dei rifugiati, umile tra gli umili ma grande nella sua carità e nella sua visione del mondo. Un magistero non di forza ma di comprensione umana, non ieratico ma paterno, il padre di tutti i figli del mondo.
Ora che le sue spoglie giacciono in Vaticano, in attesa di semplici esequie, la sua grandezza emerge in modo prepotente e inaspettato. Lo testimoniano le numerosissime lettere e dichiarazioni di cordoglio da parte dei potenti della terra. Tutti, financo Putin e Xi e Khamenei, l’ayatollah persiano, tranne il reuccio della Corea del Nord e Netanyahu. Questi due non si smentiscono mai.
Il vuoto che lascia è grande per il suo retaggio spirituale. Sostituirlo non sarà facile. 135 cardinali elettori, molti dei quali di fresca nomina, su un totale di 252 cardinali, avranno un compito assai difficile.
Già si parla, fra i media, di una diatriba fra conservatori e progressisti, dell’interesse di Trump ad avere finalmente un Papa americano, delle aspettative africane ed asiatiche per una Chiesa universale più decentrata e meno europocentrica.