di Stelio W. Venceslai



Siamo partiti con l’idea di un dazio zero su tutto l’intercambio euro-americano. Poi è uscito l’inedito suggerimento di un 10% reciproco. Un’idea avanzata da nessuno che, in partenza, si giudicava “equa”. Una sciocchezza è stata calarsi le brache prima ancora di negoziare. Siamo arrivati al 15% imposto da Trump a una debole von der Leyen. Si è precipitata ad interrompere le vacanze irlandesi di Trump, pur di raggiungere un accordo con il satrapo.

Le contromisure predisposte sulla carta dall’Unione europea non hanno avuto alcun effetto. Non si parla più di reazioni con la web tax e sulle transazioni digitali, però abbiamo accettato dazi punitivi sull’export europeo e ci siamo impegnati ad acquistare dagli Stati Uniti armi per 200 miliardi all’anno e gas per 750 (al triplo del prezzo di mercato). Ancora una volta l’Europa occidentale si è inchinata al prepotere nordamericano. Abbiamo ceduto, in cambio di che?

La conclusione, a parte i danni commerciali che ne deriveranno, è che l’Unione europea non ha alcuna forza negoziale, nonostante si tratti della terza potenza economica mondiale. La difesa dei nostri interessi è stata mal gestita e peggio conclusa. È inutile calarsi in un’ingiustificata euforia. Trump ha vinto e l’Europa ha perso. Se c’era un’occasione per mostrare i denti, è stata perduta. 

Quali sono i danni per l’Italia?

Noi siamo il quarto partner commerciale degli Stati Uniti, esportando beni per un valore complesso di circa 65 miliardi di euro. Tra i settori più esposti figurano: l’automobilistica e la componentistica (9 miliardi), il vino e l’agroalimentare (2 miliardi), la farmaceutica, settore al momento esentato per una settimana, in attesa della chiusura dell’indagine del Dipartimento del Commercio americano, l’acciaio e metalli, sui quali restano in vigore le tariffe del 50% introdotte da Trump.

Secondo la nostra Confartigianato, i nuovi dazi potrebbero pesare per oltre 3 miliardi di euro di costi aggiuntivi l’anno sulle imprese italiane, soprattutto sulle piccole e medie imprese he hanno  margini di profitto più ridotti rispetto alle grandi.

Adesso, la pseudo rivalsa consiste nelle promesse dichiarazioni di riconoscimento franco-britanniche dello Stato della Palestina. Una rivolta contro il niet di Washington, che continua ad alimentare la guerra a Gaza e in Cisgiordania?

Si tratta solo di dichiarazioni solo formali. Quale Stato palestinese? Non certo quello di Hamas, organizzazione terroristica stabilmente installata a Gaza che dopo anni di guerra gli Israeliani non riescono a debellare neppure per fame. Terroristi da uccidere, secondo Netanyahu, il che non impedisce ad Israele di negoziare con loro, riconoscendone di fatto l’esistenza e il potere.

L’organizzazione pseudo statale di Abu Mazel, un regime riconosciuto da molti ma corrotto fino al midollo, che governa, si fa per dire, la CIsgiordania e i cosiddetti territori occupati?

Nella politica di brutale espansione israeliana questi territori saranno prima o poi annessi ad Israele. Non c’è da farsi illusioni, così come a Gaza è prevedibile l’espulsione della popolazione e l‘incorporazione del territorio in Israele.

Uno Stato palestinese, purtroppo, non esiste e riconoscerne a questo punto l’esistenza è solo un bluff politico. Troppo tardi. Il nuovo, preconizzato assetto mediorientale vede solo una potenza egemone nell’area, Israele, che triplica la sua estensione territoriale. Un’espansione che si avvale dell’onnipresente protezione americana e del silenzio complice degli Stati arabi della regione.

Non è la pace promessa e invocata. Tutt’altro. Dove andranno le popolazioni espulse dall’impero israeliano? Gli Stati arabi non le vogliono. L’idea di un ghetto per milioni di persone è improponibile. Altre guerre, omicidi, attentati e disastri si profilano per il futuro. I cinquanta/sessantamila morti di Gaza provocheranno vendette sanguinose. Ne farà le spese l’Europa che, ad onta dei riconoscimenti promessi, si affretterà a prendere atto della nuova situazione geopolitica, con buona pace dei filo palestinesi europei.

Ipotizziamo gli effetti di questo nuovo assetto non dal punto di vista emotivo, ma economico-strategico. La guerra non conviene a nessuno ma, meno ancora, il terrorismo. La stabilità, in Medioriente, farà perno su Israele. Ma quanto sarà fragile? Può convenire all’Europa?

L’Europa ha interesse alle risorse petrolifere dell’area. Meno problemi ci saranno più stabile sarà il livello dei prezzi dei prodotti energetici. La dipendenza di Israele dagli Stati Uniti non apre sbocchi commerciali importanti per l’Europa. Washington la farà da padrone. Quindi, l’interesse europeo è piuttosto attenuato.

Israele diventa egemone nel Medioriente. Forse risusciterà il patto di Abramo, in una sua versione più aggiornata. Il timore che l’Iran possa giocare un ruolo indesiderato di contraltare, dopo l’umiliazione inflittagli da Israele, è un timore remoto.

La Russia di Putin è fuori dalla Siria e dal Medioriente in genere e, forse, anche dall’Iran. Si trastulla in Ucraina, ma ha perso la partita. Con la voce grossa non si fa politica, solo rumore.

La Turchia tace. Protesta in Siria, ma debolmente. Le sue riconosciute capacità di mediazione, ormai, sono inutili. Può solo ospitare le riunioni russo-ucraine per lo scambio dei prigionieri. Il regime è forte ma inutile, nonostante i suoi giri di valzer.

In questa prima tornata della storia più recente, Trump ha vinto. Vedremo alle elezioni di mid-terme e con il caso Epstein cosa ne pensa l’America. Forse il coraggio dell’opinione pubblica americana sarà più grande di quello degli Stati europei.