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Il rimescolamento del sistema politico generato dalla grande coalizione che sostiene Draghi sembra non avere confini nelle tattiche e nelle prospettive di lungo periodo. Mentre Salvini continua con il suo solito stile guascone a recitare due parti in commedia, nella duplice linea di partito di lotta e di governo: tutto nel segno di forte ambiguità, nell’un versante e nell’altro, non volendo correre il rischio di farsi mettere all’angolo dalla ibrida alleanza di governo.

Cominciano ad affiorare i primi prevedibili segnali di un qualche bradisismo nel governo; per fortuna l’autorevolezza di Draghi è per ora un saldo collante con cui egli sta tenendo insieme il diavolo e l’acqua santa: i casi di attrito però non si placano, soprattutto tra Lega e Pd, tra proposte e accenti che nel proposito di voler marcare le differenze, somigliano sempre più a castelli di sabbia, pronti a volatilizzarsi già il giorno dopo, e sempre meno a progetti coerenti e lungimiranti.

E se non fosse che di mezzo c’è l’Italia che attende una robusta revisione ordinamentale, economica e burocratica, potremmo quasi ritenerlo come un succedaneo della gioco della riffa, con il turbinio di tanti argomenti carichi di forza demagogica al levar del sole, al solo fine di voler innescare emozioni per assecondare stati d’animo del momento, pronti a volatilizzarsi nella loro inconsistenza valoriale all’imbrunire.

Triste verità, ma questo è il punto in cui stiamo approdando. Un atteggiamento che la dice lunga su quale crinale si stia collocando la dialettica politica che non salva né l’uno né l’altro schieramento dentro la maggioranza di governo.

A dire il vero una maggior coerenza di linea sembra cogliersi nelle più recenti prudenti dichiarazioni della Meloni, segno di una maturazione identitaria di una destra più moderna: sarà un portato della frequentazione dei tanti leader del conservatorismo europeo, di cui ne è a capo? Anzi proprio l’avanzare nei consensi della Meloni sta accentuando questi strani rituali del tirare il sasso e ritirare la mano.

E il senso plastico più evidente lo si ricava sia della smodata ambivalenza in cui si è collocato Salvini: appunto con i piedi in due diversi calzari, in controcorrente, come spesso atteggia il suo fare politica con la disinvolta sintesi della dicotomia dei ruoli che, in una democrazia, sono e devono apparire distinti, sia nella altrettanta ambiguità di Letta e dell’ennesimo contorsionismo grillino.

Così, da una parte nella stanza del potere, che vuol  dire intestarsi le responsabilità decisionali, peraltro con ministeri di un certo peso da parte degli uni e da parte degli altri. E nel contempo chi in aperta critica con quel governo (Salvini), come fosse altro da sé e come se non dipendessero anche dai suoi ministri quelle scelte che poi va a sindacare nelle piazze come fosse forza di opposizione.

Chi per contro, pensando di usare più accortezza, si sbilancia in proposte marziane, di cui solo pochi riescono a trovare attinenza con il contesto che stiamo attraversando. Un gioco delle parti, non per questo concordato (anzi!), che costituisce pur sempre una mina vagante che prima o poi porta a far implodere questa singolare maggioranza, quando si comincerà a mettere mano sulle riforme più attese: giustizia, pubblica amministrazione, fisco e lavoro.

Un gioco peraltro che Salvini sta cavalcando con la complicità di Berlusconi, con forse sullo sfondo una possibile presidenza della Repubblica, ossia creare una federazione tra i due partiti. Un eufemismo più che un’idea che, non a torto, è stato bollato come tentativo di annessione da parte di Salvini di quel poco che sta rimanendo di Forza Italia, volto a mettere al riparo la sua ambizione di leadership del centrodestra, fortemente insidiata dalla crescita impetuosa (un’autentica traversata nel deserto) della Meloni.

Per fortuna c’è ancora in Forza Italia un’anima autenticamente centrista che difficilmente si farà fagocitare dal campione del populismo nostrano. Letta, invece, fa l’ecumenico, non facendosi mancare nessuna opzione. Se da una parte spinge per un’alleanza con i Cinque stelle nella convinzione di assumere dalla linfa grillina una più acconcia identità con quell’elettorato sempre più in difficoltà nell’identificarsi con l’ennesima metamorfosi che sta spazzando via gli ultimi residui assi portanti delle dottrine pentastellate.

Dall’altra, non fa, neanche lui mistero della forte attrazione che in questo momento esercita tutto quell’elettorato di centro, che notoriamente è stato il perno delle politiche della prima e della cosiddetta seconda Repubblica: unico vero antidoto a politiche fondate sulla radicalizzazione, la demagogia, l’antipolitica e l’avventurismo pressappochista, fino a quando non si è lasciato spazio alle estremizzazioni alimentate dal crescendo di propagande populiste, sovraniste ed anti europeiste.

A dire il vero questi vagheggiamenti, come gli improvvisati mutamenti di rotta e le disinvolte trasfigurazioni identitarie, che soprattutto a sinistra si stanno agglomerando, lasciano il tempo che trovano. Ove non è difficile cogliere i punti deboli di politiche che si vorrebbero far passare come moderate da una classe dirigente inidonea ad assicurare un progetto di futuro che abbia credibilmente, nei suoi assi portanti, una sintesi virtuosa degli interessi di tutte le classi sociali.

Quella sintesi fu l’essenza del popolarismo che nel cinquantennio Dc seppe ben coniugare un’identità ideale, progettuale e programmatica consentendo un processo di sviluppo e un progresso capace di farne dell’Italia una grande potenza industriale.

Tale sintonia noi non riusciamo a vedere in quei protagonisti (Di Maio, Conte, Salvini) di recenti stagioni ove han dominato disinvolte culture, populiste, giustizialiste, anti industriali e anti parlamentari, farcite da uno spregiudicato trasformismo. Ma neanche nelle ridondanti proposte che Letta sta declamando da un po’ di tempo, del tutto estranee dal contesto di risposte e soluzioni, non solo immediate, che la collettività si attende da questa prima fase di ripartenza economica, riusciamo a scorgere una utile e coerente attinenza.

La sua ci pare una scommessa troppo grande per quello che è riuscito a proporre fino a questo momento; figuriamoci poi se si inerpica su sentieri comuni alla galassia grillina, ove in questo momento sembra regnare grande confusione.

Ormai non si contano le controversie che, la scelta di recidere il cordone ombelicale con la piattaforma Rousseau sta innescando, per ragioni non solo di denari non versati alla company, ma c’è in ballo anche la questione del simbolo e nel retropensiero di bypassare la ferrea regola del doppio mandato che non va giù a tanti deputati e senatori, ammaliati dalle stanze del potere e divenuti loro stessi quel tonno che volevano liberare dalle scatolette del sistema parlamentare.

Un paradosso che la dice lunga sull’affidabilità e sul concetto di democrazia di questi cittadini del popolo. E lo stesso Conte, che era entrato con tutte le credenziali del nuovo leader comincia a incontrare innumerevoli difficoltà in questa sua lunga marcia nel ricomporre una galassia che nella sua radice più profonda non ne vuole sentire di ulteriori camuffamenti, giunti persino a balenare modelli centristi. Una blasfemia che rende tutto il clima di un movimento che si orienta secondo dottrine a perdere, o per meglio dire usa e getta nel più tipico modello di politiche da supermarket, finalizzate a solleticare emozioni e istintualità, senza organicità e senza una visione d’insieme e lungimirante.

Con l’unico concreto effetti di ingannare gran parte degli elettori. Eloquenti i contorsionismi e le giravolte di questi tre anni di legislatura nei tre governi, ciascuno il contrario dell’altro e con obiettivi scarsamente comparabili.

Come non si capisce l’enfasi apparsa attorno alla ripescata proposta dello ius soli, da parte di Letta, come fosse la panacea di tutti i mali dell’Italia o ai selfie con la felpa della Open Arms in compagnia del suo fondatore, a testimonianza del fatto che, le parole e i gesti talvolta tradiscono le buone intenzioni. Insomma altro che esempi di moderazione.

Anzi chiari segnali di ambiguità identitaria, come è da un bel po di tempo, da quelle parti, che Letta ha voluto lanciare ai tanti delusi di quel popolo di sinistra, rimarcandolo di tutto il suo significato divisivo verso gli alleati governativi del centrodestra, guardando al prossimo governo. Non certo un buon viatico per porsi come traghettatore di un contenitore ad ampio spettro, capace di attrarre nella sua orbita le formazioni centriste in un ipotetico progetto di ricostruzione del paese.

Eppur non sono pochi i giorni trascorsi da quando Letta, quasi condotto come Cincinnato, ritiratosi a curare il suo orticello (si fa per dire: si trattava in realtà di una prestigiosa scuola diformazione politica in Francia), è stato acclamato come l’unica risorsa disponibile per rilanciare il partito.

Ma già dal suo esordio pare aver scontentato tutta quella parte di opinione pubblica dal quale si attendeva ben altro che la sue marziane proposte di riduzione del limite di età per l’elettorato attivo e lo jus soli, così esponendo il paese ad una escalation della destra nazionalista che, ben contenta, continua a erodere spazio e a divenire il secondo partito, secondo le ultime previsioni. Mentre l’Italia naviga in una difficile contingenza sanitaria, economica e sociale. Non altrettanto brillante è apparsa l’idea di proiettarsi disinvoltamente verso Forza Italia in un un ponte comune, denominato patto per la ricostruzione, con il proposito, non espresso, di far terreno comune dell’ampia pangea del centro, al momento affetta da desertificazione.

E dall’altra rivolgendosi contestualmente al movimento Cinque stelle, o a quel nuovo contenitore politico che sta tentando di organizzarsi, sotto la guida dell’avvocato del popolo. Non sottovalutando tutto l’impatto deflagrante di una antiteticità di ideali e valori poco compatibili. Forse si è fatto conquistare da quella singolare e disinvolta aspirazione di Di Maio (nella supposizione che gli Italiani abbiano dimenticato quella ardimentosa iniziativa andando a Parigi a solidarizzare con i gilet gialli) di riproporsi come forza moderata e popolare, mostrando di ignorare completamente la tessitura di un elettorato incompatibile con una visione centrista.

Ma davvero pensano di bypassare i conti con la storia identitaria di quel movimento, nato nell’intreccio di dottrine antisistema e dense di antipolitica. Non basterà un ennesimo camuffamento per non fare i conti con il proprio recente passato.

Ma basta per rendere oramai evidente che le coalizioni non sono più il frutto e la conseguenza di una strategia politica, di un progetto di governo ma, molto più semplicemente, la sommatoria di chi è “contro qualcuno”. Per la verità, non si tratta di una grande novità nel panorama politico italiano dopo la lunga stagione della prima repubblica e dopo quella, meno intensa ma comunque carica di aspettative e di attese, dell’Ulivo.

Da molti anni si declina il proprio progetto politico in virtù di una pregiudiziale politica e anche personale contro qualcuno o qualcosa, (Giorgio Merlo, Il Domani d’Italia, 24.04.2021) ieri Berlusconi oggi Salvini. Ma la cosa vale anche rovesciando il sestante politico. È questo il crinale su cui passa la credibilità delle forze politiche e soprattutto di chi ha la responsabilità della guida.

Contribuendo a quel gran guazzabuglio istituzionale che sta disorientando molta parte dell’opinione pubblica. Ancora una volta la prova che molti leader e buona parte della classe politica di oggi, non riescono ad anteporre gli interessi del paese ai riverberi in chiave elettorale. E così, in un contorsionismo di cui oggi nessuno si scandalizza, ci si butta scopertamente in ruoli duali ed ambigui.

Al bene comune si preferisce la più sbrigativa conquista del potere, con tanto di scorciatoie populiste e facili promesse ed i partiti diventano sempre più degli artificiosi contenitori, ove coabitano mix di culture talora poco assimilabili tra loro. Riuscirà questa strategia a non dare troppo spago a chi ha scelto coerentemente di stare all’opposizione?

A quanto pare no! Stando al trend sempre più in crescita del partito di Giorgia Meloni, sostanzialmente l’unico vero partito all’opposizione, cui guardano tutte quelle categorie, e sono tantissime, della piccola impresa e dell’artigianato e del commercio che lamentano inadeguatezze, disinteresse, e poca sensibilità di questo governo, pilotato dall’asse maggioritario Pd-Cinque stelle, i sondaggi registrano un ulteriore accrescimento dei consensi. Il problema è però la poca percettibilità di alcuni coni d’ombra delle attuali linee politiche che ciascun partito sta tenendo, in parte in modo assai defilato, nel tentativo di definire con maggior nettezza, in vista della scadenza della legislatura, cosa ciascuno vuol fare e dove vuole andare con tutto quel corposo manifesto di impegni che contiene il Recovery plan, che intanto tutti si sono impegnati a sottoscrivere, pur con qualche distinguo.

Cosa che rende ancor più preoccupante la temuta deriva verso politiche che nell’un versante (centro destra), è immaginabile che l’accentuarsi delle sensibilità nazionaliste, finirebbero per innescare un aspro contenzioso con l’Ue dagli esiti imprevedibili, con tutto il riverbero sul Pnrr. Nell’altro versante (centro sinistra) un acritico allineamento alle rigide asperità della tecno-burocrazia europea, farebbe facile gioco alle destre per riproporre tutto il loro armamentario antieuropeo ed anti Euro. E neanche un ipotetico approdo di Salvini verso il Ppe, benché poco verosimile avendo già ipotecato un suo spazio nello schieramento dei conservatori europei, negoziato di recente, implicherebbe di per sé la garanzia di un coerente adattarsi a posizioni moderate e anti-populiste. Prova eloquente ne è tutto lo spaccato di politiche sovraniste e populiste del campione della democratura ungherese, Viktor Orban, membro, non da ora, del Ppe, che ha preso a pretesto la pandemia per sospendere e arrogare a sé i poteri del parlamento.

Insomma dopo la lunga stagione della prima repubblica e dopo quella, meno intensa ma comunque carica di aspettative e di attese, dell’Ulivo, si rischia di proiettare nell’immediato futuro l’effetto pernicioso di una società, sempre più liquida, che sembra cercare risposte atomizzate e settoriali, e poco importa se siano coerenti o non abbiano una visione d’insieme.

È, in un certo senso uno scenario dalla tipica fattura liberista che si sta prepotentemente affacciando nel nostro sistema, con conseguenze dense di forte aggravamento del divario, nella scala di accumulazione della ricchezza, ma anche con l’effetto di allontanare ogni politica di perequazione territoriale, soprattutto tra nord e sud. Del resto sono già molti anni in cui si declina il proprio progetto politico in virtù di una pregiudiziale politica e anche personale contro qualcuno o qualcosa, (Giorgio Merlo, Il Domani d’Italia, 24.04.2021) ieri Berlusconi oggi Salvini. Ma la cosa vale anche rovesciando il sestante politico. È questo il crinale su cui passa la credibilità delle forze politiche e soprattutto di chi ha la responsabilità della guida.

Malcostume già lucidamente prefigurato mezzo secolo fa dal prof. Pietro Scoppola, storico di area cattolica, per il quale la credibilità di un uomo politico è tanto più genuina e solida quanto più riesce ad unire nella sua azione concreta e quotidiana la cultra del comportamento con la cultura del progetto. Una visione d’insieme per la quale il richiamo inevitabile al concetto di Umanesimo integrale non può non fare a meno di tutta la capacità di sintesi che è in grado di sprigionare il popolarismo sturziano. Quanto predittive appaiono le considerazioni del prof. Ignesti, in occasione di un’intervista di qualche anno fa condotta da Lucio D’Ubaldo: ...Dobbiamo essere severi.

Il punto debole della tradizione rappresentata dal popolarismo sta nella fiducia riposta con soverchia generosità nel metodo del dialogo e della partecipazione, come pure nella difesa dei meccanismi diretti a garantire l’equilibrio dei poteri. Quanta profondità e verità in questo approccio! Per contro, sotto i colpi della crisi, la fase che attraversiamo richiede capacità e rapidità di decisione.

Da qui nasce l’attenzione verso il tema della leadership, perché dinanzi alle molteplici e gravi emergenze, dalla lotta all’incombente declino economico e alla congenita instabilità politica del Paese, solo una leadership a forte legittimazione diretta appare adatta a fronteggiare il pericolo. Tuttavia, non è meno evidente il rischio che questa democrazia d’investitura degeneri nel vuoto leaderismo, associato per giunta alla irruenza e confusione del plebiscitarismo.

Per questo, a voler connotare il popolarismo di apprensione e solerzia per la costante possibilità di crescita della democrazia, sopravanza a dispetto delle circostanze asfittiche – vale a dire delle permanenti fragilità e irresolutezze del quadro post-democristiano – la bontà di un nuovo progetto politico intriso di fervida e consapevole sensibilità cristiana.

Qui risiede il nucleo di resistenza del popolarismo. Certo, di un popolarismo aggiornato, capace di aperture e innovazioni, non legato dunque alla mera ripetizione di ciò che è stato. Tutto questo è possibile, perché la riserva etica costituita da questa tradizione di pensiero e mobilitazione politica è indispensabile a far sì che nel processo di cambiamento, ora più che mai urgente, agisca un dato di coerenza e realismo a salvaguardia della stessa tenuta morale della nazione.

Questa, in sintesi, è la qualità incorrotta del riformismo di matrice sturziana. Come ci possiamo sottrarre allora al dovuto confronto con quell’esperienza del passato che seppe operare una ricostruzione del paese che tutto il mondo di allora ci ha invidiato? Un miracolo economico che le politiche di sviluppo messe in campo nel secondo dopoguerra seppero assicurare. Come scrive Raffaele Bonanni su Il Domani d’Italia, ... Le città italiane erano un cumulo di macerie, le casse dello stato prosciugate, le famiglie a lutto per la perdita dei propri padri e figli, fratelli e mariti, eppure, come si è ripetuto all’unisono, gli italiani hanno affrontato la realtà con coraggio e determinazione e già dopo più di un decennio, nel mondo si parlava degli italiani come popolo capace di originare un boom economico difficile da rintracciare nelle storie dei vari popoli.

E nel suo parallelo con la realtà di oggi, non manca di mettere in guardia i capi di partito che quei duecento miliardi del Pnrr rischiano di essere un come un acquazzone di agosto su terreni argillosi in assenza di riforme. Ma basterà l’esortazione che Egli rivolge: Il dividendo per il benessere di tutti sarà grande ed anche vostro in termini di prestigio.

Sta di fatto che la scommessa che stiamo per affrontare con l’avvio del corposo processo di ristrutturazione che investe gli ambiti ordinamentali più importanti, dal giudiziario (per superare la lentezza dei riti processuali del civile e del penale) ai settori normativi più incidenti nel rapporto Stato - cittadino (Pubblica amministrazione, fisco, lavoro, sostenibilità ambientale) non può farci trascurare tutta l’allarmante perplessità del modo di procedere di questa classe politica, afflitta da un conflitto permanente tra faziosità e irragionevolezze normative, poco compatibili con il compito cui sono chiamati a prestare.

C’è un Recovery plan da gestire e una cornice di opere infrastrutturali e di ammodernamento dei supporti delle aree produttive, assieme alle riforme, da portare in cantiere e realizzare in tempi (cinque anni) che a dire il vero per noi appaiono poco sostenibili. A meno che non si riporti nell’agone politico tutto il patrimonio di ideali, lo spirito di servizio e la visione di paese e la laboriosità progettuale che fu tipica della grande scommessa che grandi uomini come De Gasperi, Fanfani, Moro, Donat Cattin, seppero mettere in campo nel secondo dopoguerra realizzando, in tempi record, grandi opere pubbliche ed infrastrutturali che furono il volano di un processo di sviluppo del paese portando l’Italia ad essere tra le prime potenze industriali del mondo.

Tocca a chi ha la responsabilità di rappresentare in questo momento questo patrimonio di ideali e di valori, che non si è mai del tutto eclissato, recuperando il senso dell’insieme, della politica come strumento di partecipazione e di coinvolgimento, nel rispetto delle differenze e delle diverse posizioni, di affrettarsi a ridargli luce, mettendo in campo un progetto per l’Italia di domani, in modo che dalle secche di un angusto atollo si faccia spazio tutta una potenzialità politica e programmatica e una nuova classe dirigente che nel solco dell’insegnamento sturziano e dei postulati,non negoziabili, di un Umanesimo integrale, come mirabilmente delineato dalle encicliche di Papa Francesco, sia capace di dare nuova speranza a tutto quell’elettorato, lontano un miglio dal pressappochismo, dall’avventurismo e dall’improvvisazione di questa classe politica, e ad una comunità che attende di ritrovare fiducia nelle istituzioni e nel proprio futuro.

Insomma quel patrimonio di valori occorre riportare, al più presto, nel tavolo della grande politica se si vuole salvare l’Italia da un declino irreversibile.

Ma questa scommessa non può affidarsi ad un’aggregazione multiforme, come fosse un’ammucchiata di differenti visioni della società, anche al costo di non far più sopravvivere nome e simbolo di quell identità originaria (come sembra emergere dai tratti predittivi delle ultime sedute dei lavori preparatori della federazione popolare dei Dc) ma serve il coraggio di chi, a cominciare dal Segretario politico Grassi, ponga l’imprescindibilità di un ruolo (federatore) che non può non appartenere a chi oggi, nel nome e nel simbolo, rappresenta la continuità di quell’identità storica democristiana e di quella esperienza politica, e si accinge a scendere in campo con quel patrimonio di idee, in convergenza con le nuove istanze del paese, per la rinascita civile, sociale ed economica dell’Italia.

 

© Luigi Rapisarda

 in Il Laboratorio Anno 18 - Numero 5 Maggio 2021