di Ruggero Morghen



Il fascino della figura di monsignor Romero, la Chiesa dei poveri, il sogno di una umanità nuova. La speranza nel cambiamento, la polemica contro la Chiesa costantiniana. Non sapevo di avere, a un chilometro da casa, un rappresentante delle comunità di base, dei cristiani per il socialismo, del dissenso cattolico, della teologia della liberazione. Non sapevo della sua lunga storia di credente e militante; mi rimane però il ricordo del suo sorriso e delle sue parole di pace quando lo incrociavo a Ceole, dove abitava.

Era nato a Bàresi di Bergamo nel 1944 ed era – o almeno si riteneva - “dalla parte giusta della storia”, Ubaldo Gervasoni, cui ancora da vivo avevano intitolato un istituto, una scuola in mezzo alla foresta, in mezzo al nulla. Laureato in teologia nel 1972 alla Pontificia Università Lateranense, nel 1980 si laureò in sociologia all’università La Sapienza di Roma. Era un sacerdote strano secondo alcuni, un uomo combattente e combattuto, poi divenne un marito complesso. Del resto, lui stesso si definiva “uomo in conflitto”. Fu in Nicaragua (“Ay, Nicaragua, Nicaragüita”) nel periodo sandinista, poi in Palestina, nel commercio equo e solidale, nella cooperativa Ephedra, sempre coltivando la solidarietà che raffigurava come la tenerezza dei poveri. “Sono un sogno ambulante” diceva di sé, lui orgoglioso delle sue “mani consacrate regalate ai poveri”. Era anche poeta, Ubaldo (“Porto la spada nella parola”), ma la sua poesia negli ultimi tempi di malattia era diventata silenzio.

Al collega Stefano Ischia del quotidiano “L’Adige” solo due anni fa Gervasoni aveva parlato di Giovanni Franzoni, un tempo arcinoto. “Io l’ho conosciuto quando era ancora abate e guida della comunità [di San Paolo fuori le Mura], poi il Vaticano l’ha sospeso a divinis e quindi dichiarato non più prete. A me non interessava se era abate o no, a me interessavano le sue idee e la libertà nell’esprimerle senza le restrizioni della Chiesa. Volevo però fare il volontario e il lavoro dipendente mi pesava: non trovavo in esso un fine sociale più ampio che incidesse sulla comunità e sul cambiamento per cui lottavamo… e così sono partito nel 1985 per fare il volontario all’estero”. Solcato l’oceano, in Nicaragua collaborò con la revoluciòn popular sandinista dal 1985 al 1991 nei programmi della riforma agraria nella cittadina di Waslala (che ora conta circa 50 mila abitanti), zona impervia e teatro di guerra.

Proprio dal nord del Nicaragua oggi Giuseppe fa presente l’importante presenza e missione di Ubaldo, mentre Diego Milesi esprime il cordoglio della “compagnia dei libertari”. Monsignor Luigi Betelli, suo compagno di Messa nel 1969, lo ricorda a Londra e poi a Tonezza del Cimone, dove venne a trovarlo mentre era in ferie. “Ci siamo sentiti varie volte al telefono – dice – era un amico, un idealista a favore dei più deboli, un incompreso dalla Gerarchia”. Marica Potrich ha ancora presenti le sue parole di pace e il suo impegno a favore dei più deboli. E Marco Boato riserva al “carissimo Ubaldo” un abbraccio solidale. 

“Que nadie se rinda!” è stato il commiato dei numerosi presenti al rito funebre, amici e conoscenti del Gervasoni. La bara ricoperta di scritte e saluti come il gesso di un adolescente infortunato: un’idea dell’impresa di pompe funebri Torboli-Zandonatti per “dar colore alla bara di legno grezzo d’abete”. “Questi funerali laici – ci dicono - sono tutti diversi. A volte, però, il commiato diventa comizio”. La cerimonia, assai partecipata, avveniva sotto lo sguardo del San Francesco scolpito alle Grazie da fra’ Silvio Bottes, aiutato in quell’occasione da Osvaldo Maffei che ricorda: “Ci teneva a piantarlo nella terra, per non monumentalizzarlo”.