Il XX Congresso della Democrazia Cristiana arriva in una stagione contrassegnata da cambiamenti repentini in ogni aspetto della vita sociale e, soprattutto, in un momento in cui è necessario fare scelte straordinariamente importanti per il bene del Paese. La pandemia, anche sotto il profilo industriale ed economico, ha messo davanti agli occhi delle classi dirigenti una lunga serie di criticità e fragilità del sistema produttivo, di cui non possiamo non tener conto nel costruire un orizzonte credibile per l'Italia.

La guerra in Ucraina, causata dall’invasione russa, oltre alla fondamentale scelta di rinnovare convintamente l'adesione al blocco europeo ed atlantico, ci ha costretto a rivedere radicalmente l'organizzazione degli approvvigionamenti energetici e di materie prime. Dopo 30 anni di globalizzazione dei mercati, dei capitali e delle merci, l'economia europea deve ripensare - interamente -  la struttura funzionale del suo sviluppo. L’Italia, nonostante i diffusi problemi che la affliggono in tema di produttività del lavoro e di efficienza del sistema pubblico-burocratico, almeno nel post COVID, ha dato prova di energico fervore.

Di fronte a noi ci sono, comunque, sfide economiche che non possiamo più mettere ai margini del dibattito politico. Sono i diversi punti di riforma economica che il nostro Paese deve affrontare in un'ottica di prospettiva a medio e lungo termine. È necessario, tuttavia, partire da una preliminare attenzione alle questioni di finanza pubblica, che condizionano ogni analisi in merito all'avvenire italiano.

Il nostro debito pubblico, come rilevato nell’ultima nota della Banca d’Italia, ha segnato, infatti, il suo massimo storico, toccando quota 2.772 miliardi euro. L'Italia deve, pertanto, gestire e riposizionare uno dei più rilevanti stock di debito sovrano a livello mondiale. La sostenibilità dei conti si giocherà, in larga misura, sulla capacità di continuare a mantenere competitivo il nostro sistema economico, attraverso un modello produttivo basato sulla qualità piuttosto che sul prezzo. Occorre ricordare che, già dal 2025, secondo le previsioni delle principali autorità economiche internazionali, la crescita dell'Italia sarà largamente inferiore rispetto ai partner dell'Unione Europea. 

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (pacchetto da ben 750 miliardi di euro), è stato programmato, dall’Unione Europea in risposta alla crisi pandemica. Secondo le iniziali previsioni governative, il PNRR contribuirà, in modo sostanziale, a ridurre i divari territoriali, generazionali e di genere, destinando 82 miliardi al Mezzogiorno su 206, ripartibili secondo il criterio del territorio e prevedendo, inoltre, un investimento significativo sui giovani e le donne.

La difficoltà di attuazione e di messa a terra del PNRR è sostanzialmente collegata alla storica difficoltà del nostro Paese di utilizzare i fondi europei. In ogni caso, mai l'Italia ha avuto la possibilità di impiegare un capitale finanziario di siffatte dimensioni per realizzare vere riforme strutturali, in grado di superare le ataviche incrostazioni che hanno ostacolato la necessaria modernizzazione della sua economia.

Le previsioni macroeconomiche, già per il 2024-2025, indicano un Pil ancora in crescita per effetto - quasi esclusivo - del pacchetto di "sovvenzioni" domestiche ed europee. Va da sé che, finito l'effetto di questi aiuti, non ci sarà crescita economica duratura, se non verranno trasformate le infrastrutture strategiche del Paese, quali scuola, formazione, implementazione delle reti (fisiche e digitali), programmi di digitalizzazione e investimenti in ricerca tecnologica avanzata (bio e nanotecnologie, superamento delle energie fossili, ricerca di base e biomedicale).

L'Italia non sarà ancora internazionalmente appetibile attraverso una fuorviante narrazione senzazionalistica: "un nuovo piano Mattei", "sovranismo alimentare", "il liceo del made in Italy", "un piano per evitare la sostituzione etnica". Servono meno "muscoli" e più intelletto, al fine di organizzare le scelte radicali che afferiscono ai progetti da finanziare, evitando frammentazioni, localismi e parcellizzazioni, tipiche di un sistema già negativamente sperimentato. Scuola e formazione rappresentano, pertanto, i due capitali dove, preliminarmente, indirizzare gli investimenti in grado di determinare "futuro".

Il libero mercato non si aggiorna sulla scorta degli slogan sopra menzionati, ben sapendo che il modello economico occidentale dovrà, comunque, trovare veloci aggiustamenti. La vecchia logica del "produrre di più" per "consumare di più" non è più compatibile, infatti, con le attuali limitate risorse fisiche e naturali del pianeta.

Si deve, quindi, cercare e favorire una dimensione politico-sociale che ci affranchi dai tentacoli di un'economia predatoria, facendo definitivamente nostri i principi, ormai imprescindibili, come l'economia circolare, il risparmio e la preservazione delle fonti naturali (in primis l'acqua) ed un uso prevalente, dove possibile, delle materie prime meno impattanti ecologicamente. 

Davanti a noi si sta aprendo un futuro di cambiamenti davvero epocali, che condizioneranno la nostra economia interna, basata soprattutto sulla trasformazione delle materie prime, di cui siamo sostanzialmente privi. Il mondo inventera' e consumerà beni e prodotti attualmente inesistenti. Tutto ciò pone, allora, una serie di sfide ai modelli organizzativi aziendali, agli investimenti tecnologici e alla creazione di un capitale umano all'uopo deputati, così da rimanere inseriti nella filiera del valore - internazionalmente - più evoluto.

Si tratta, in sostanza, di immaginare una nuova cultura industriale e del lavoro che metta alla frusta tutte le migliori energie del Paese. Lavorare fin d'ora a questo nuovo paradigma, ci consentirà di camminare accanto alle strategie globali più evolute, invertendo così il gap negativo di sistema fin qui accumulato, che, altrimenti, potrebbe irrimediabilmente consegnarci al declino.

Nella realtà di oggi, purtroppo, si riscontra che la dinamica retributiva penalizza fortemente il lavoro subordinato, sia manuale che intellettuale; non è, però, il salario minimo lo strumento utile per favorire un metodo perequativo, sufficiente, a colmare il divario reddituale nei confronti degli altri Paesi europei.

Competitività, tassazione, progressiva fiscalità e nuova contrattazione collettiva rimangono i capisaldi per individuare una corretta soluzione al problema. Un sistema economico, infatti, che tende alla giustizia sociale pone la retribuzione del lavoro, in tutte le sue accezioni, come un valore da inseguire e preservare.

Partiti e corpi intermedi devono, pertanto, ridisegnare il concetto di uguaglianza, sulla scorta del saggio principio costituzionale secondo il quale "chi ha di più, deve dare di più", permettendo così l'universalità e il miglioramento della qualità dei servizi per ogni cittadino, a partire dalla sanità, che deve rimanere pubblica, prima che oggetto di esclusiva trattazione privata.

Il "futuro" è una parola abusata: non va solo evocato, ma costruito con la fatica di chi compie responsabilmente il proprio dovere, tenendo presente che la conservazione non ha mai aiutato la mobilità dell'ascensore sociale, termometro, quest'ultimo, valutativo di giustizia e coesione nazionale, oltre che fiducioso messaggio di valorizzazione del merito.

Questa strada - seguita con vera determinazione - potrebbe creare e infondere speranza per il ritorno in Patria di tanti talentuosi giovani italiani emigrati all'estero. 

 

 Luigi D'Agrò