di Stelio W. Venceslai



In questo momento, con due guerre endemiche e disastrose in Europa e in Medioriente e un’altra cinquantina di guerre, guerricciole e scontri armati nel mondo, in Italia si svolge un dibattito surreale sul tema della violenza.

Sono tutti candide colombe, come se ciò che accade nel mondo appartenesse ad un’altra genia di essere umani. La violenza incombe, invece, armata e verbale, da tutte le parti.

Viviamo in un’epoca di straordinaria violenza. Rotti i freni di un diritto internazionale messo sbrindellato in soffitta, stracciati accordi concepiti per mettere pace e non guerra, la logica del più forte s’impone, con tutta la violenza che comporta e quella di chi la contrasta.

Nella violenza prosperano le organizzazioni “terroristiche”, così definite perché, non avendo lo status di Stato, ricorrono a strumenti meno nobili di una guerra formale, come la guerriglia, gli attentati, i rapimenti, i massacri indiscriminati. (v. Hamas contro Israele oppure, a casa nostra, i famigerati anni di piombo, con le brigate rosse contro lo Stato).

Questa possiamo classificarla come violenza istituzionale, ma è solo la più evidente. In realtà, dal grande al piccolo, la violenza è un oceano che sempre più permea la nostra società civile. Alla violenza politica pubblica fa da contrappunto quella privata, con una progressiva assuefazione della società civile che ne è inconsapevole vittima.

Nel nostro Paese (ma anche in tutta l’Europa occidentale), la pena di morte è stata esclusa dai poteri dello Stato, e questo è il massimo della violenza civile istituzionalizzata. Inoltre in Europa il possesso di armi è rigidamente disciplinato proprio per ridurre la possibilità della violenza privata.

Negli Stati Uniti, invece, la pena di morte è abitualmente applicata e la diffusione delle armi, anche da guerra tra i privati cittadini, in libera vendita, è ammessa, spesso con conseguenze devastanti. Ne consegue che l’omicidio politico è frequente, fa parte del paesaggio americano.

L’assassinio di un predicatore repubblicano, come Kirk, fino a ieri sconosciuto in Europa, ha aperto un dibattito da noi del tutto surreale. Che ce ne importa? Non sono fatti nostri. Ma questo dibattito diventa strumentale per il vittimismo della Meloni (chi si piange addosso suscita consensi) e per la reazione ipocrita e quasi offesa delle Sinistre, presunte imputate di violenza politica. Il tutto in salsa elettorale, al solito.

Altro dibattito surreale è quello sul termine genocidio. Israele si ribella a questa accusa. Il genocidio è solo e soltanto l’olocausto. Loro non sono genocidi.

Le Nazioni Unite, la maggioranza degli Stati, il mondo civile, le sinistre da noi (e in Europa) parlano tranquillamente di genocidio nel caso di Gaza. Solo Israele e gli Stati Uniti rifiutano questo termine, chissà perché. L’Unione europea (e l’Italia) seguono a ruota, ma tanto non contano. Se il termine infastidisce Netanyahu, per carità, non lo si può usare.

Non parliamo, poi, nei confronti dell’Ucraina. Non è genocidio, attenzione. Quella è una guerra vera (ma per la Russia è solo un’operazione speciale). Tutt’altra cosa. Per i morti, esserlo per genocidio, guerra indiscriminata o pulizia etnica, però, è indifferente. Sempre morti sono. Per cause sconosciute perché non troviamo una parola adatta?

Ora, che sia genocidio o pulizia etnica o massacro organizzato da uno Stato nei confronti di una popolazione civile, francamente, la cosa è irrilevante. Il risultato è sempre lo stesso. La bomba atomica a Hiroshima e a Nagasaki oppure i bombardamenti a tappeto sulla Germania nell’ultima guerra mondiale (600.000 morti), cosa sono stati, se non dei precursori? Quelli andavano bene, perché servivano a vincere una guerra. Un po’ meno, però, eticamente.

La storia, quella vera, non quella scritta e riscritta in Russia e in Cina, ricorda massacri definiti come genocidi, nonostante questo termine sia rifiutato dai loro autori. L’unico genocidio ammesso è quello dell’Olocausto.

Facciamo due righe di conto: il massacro degli Armeni, sempre negato dai Turchi, dieci milioni di Ucraini morti di fame per le esigenze dei Piani quinquennali di Stalin (l’Holodomor), i cento milioni di contadini cinesi scomparsi durante il grande balzo e la rivoluzione culturale cinese, la pulizia etnica tra Ruanda e Burundi. Un mondo sporco di sangue che, però, non è migliorato affatto. Genocidi puri e semplici.

A Gaza sta accadendo la stessa cosa. Tutti zitti, baloccandosi sulle parole

La crudezza del conflitto è tale che solo alla sua fine si potranno distinguere i buoni da cattivi. Ovviamente, i cattivi saranno quelli che hanno perso. Nessuno si chiede, però, se tutto questo sangue versato abbia un senso.

La violenza si è ampiamente estesa nel nostro tessuto civile. La prima responsabile della violenza, indotta dall’imitazione, è la televisione. Qualunque fiction trasmessa agli spettatori è farcita di episodi di violenza gratuiti, spesso truculenti, nei quali la vita umana sembra non avere alcun valore. Qualunque divergenza di opinioni si conclude a pugni e calci o a colpi di rivoltella. Un esempio che facilmente travalica nell’animo dello spettatore convinto che il farsi ragione da sé sia l’unica e più diretta possibilità di far prevalere le proprie idee.

Ciò spiega lo sviluppo dei giochi elettronici, dove si possono uccidere senza conseguenze (anzi, addirittura con premi) le figurine che appaiono sullo schermo, “i nemici” virtuali e l’impressionante aumento del bullismo (che porta spesso al suicidio) e dei femminicidi, degli stupri di gruppo, diffusi poi con l’ausilio dei cellulari e del web per maggior vanto di criminali cretini.

La violenza politica è un altro di questi esempi che inquinano il nostro Paese. L’avversario politico, spesso per idiozia ideologica (mancanza di una cultura appropriata), è un “nemico”, cui, potendo, s’impedisce di esprimere le proprie opinioni.

Squallide imprese di estremisti di destra o di sinistra estreme punteggiano la nostra cronaca. Bande di quattordicenni che assaltano una banca o uccidono a calci un disabile o stuprano una ragazzina, sono esempi di orrore. Una violenza da condannare senza se e ma o furtive compiacenze.

In questa situazione, dove tutto è violenza, il dibattito attuale è privo di senso.

Non sono le parole ad istigare alla violenza, ma è tutto il sistema che ambisce all’impunità, che conta sulla lentezza dei giudici, sull’inefficacia delle norme, sulla comprensione delle mamme e sull’indifferenza cieca della popolazione. Assassini che chiedono perdono per delitti talvolta efferati sono una miserabile conferma dei guasti morali della nostra società. Un ravvedimento impietoso.

Il primo esempio dovrebbe venire dai politici. In Parlamento, l’asprezza del dibattito è fine a se stesso, ma travalica nel Paese. L’opposizione fa il suo mestiere, ma lo fa male. Non si può obiettare solo con degli slogan. Per contro, la maggioranza replica sugli stessi toni. Uno scontro che prescinde da interessi che dovrebbero essere comuni, quelli nazionali.

Abbassare i toni, non offendere, non insinuare, dovrebbe essere una regola ferrea.