IL POPOLO

Editoriali

Il bresciano Mimmo Franzinelli, storico “militante” del fascismo e pure un po’ dell’Italia repubblicana, ha consacrato il suo penultimo volume a Giacomo Matteotti e Benito Mussolini, accomunati nel significativo titolo “Vite parallele dal socialismo al delitto politico”. Tra i due si riscontrano infatti prossimità cronologica e un comune apprendistato socialista in ambito familiare. È inoltre contestuale, nel 1901, la loro collaborazione ai giornali di sinistra. “Nella temperie bellica – rileva poi Franzinelli -, gli itinerari sentimentali di Mussolini e di Matteotti registrano significativi parallelismi”, ma – è ben intuibile – anche differenze notevoli, come dimostra l’epistolario (cui troppo spazio è accordato per l’economia dell’opera) di Giacomo con la moglie Velia.
L’assemblea generale della CEI, tenutasi a Roma dal 20 al 23 Maggio, segna una tappa importante non solo per la vita della Chiesa italiana, ma anche per i cattolici impegnati nella vita politica del Paese. I vescovi italiani - come è riferito su IL POPOLO - hanno affrontato le grandi questioni che interessano le nostre comunità a partire dalla difficile situazione di una realtà nella quale un italiano su sette vive sotto la soglia di povertà e il ceto medio, secondo l’indagine del Cida&Censis, vive la paura di una progressiva regressione sociale.
L’articolo di Ettore Bonalberti “Vogliamo riprovarci?” pubblicato su Il Popolo ha ridestato in me un nostalgico pensiero che qualche mese fa avevo condiviso con Lucio D’Ubaldo: una Camaldoli 2. In verità l’amico Ettore - secondo la mia sensibilità – si è spinto oltre. Io non vedo una Camaldoli di esponenti di partito, ma di illuminati, di ricercatori, di pensatori per mettere a fuoco esperienze, tradizioni, visioni, idee, risorse reali a partire dal Codice di Camaldoli e coniugarlo nel solco del tempo e delle esigenze attuali in chiave prioritariamente sociale e prepolitica. Lo scopo dovrebbe essere quello – detto con un orribile neologismo inglese – di essere degli influencer.
Il grande fiume carsico del mondo cattolico, frastagliato nei suoi numerosi affluenti culturali e organizzativo sociali, non riesce a superare la frammentazione politica succeduta al tempo dell’unità nella DC. Conseguenza della fine dei collateralismi, dei nostri errori e del trionfo del relativismo etico culturale che ha attraversato l’esperienza contemporanea del nostro Paese. La crisi dell’associazionismo e della stesse culle di formazione tradizionale cattolico-sociali, le parrocchie, hanno ostacolato l’emergere di una nuova classe dirigente sul piano organizzativo e politico istituzionale, mentre gli ultimi eredi dell’esperienza democratico cristiana si sono dispersi nelle tante piccole casematte guidate da capi e capetti, ognuno dei quali convinti di potere coordinare gli altri o, molto più egoisticamente, disponibili a trovare la personale collocazione nei partiti espressione del bipolarismo forzato da leggi elettorali assurde, pseudo maggioritarie.
Alla fine, è accaduto ciò che era previsto: la nostra area sociale e culturale andrà divisa al voto con candidati sparsi qua e là in diverse liste, quasi tutte lontane dai nostri valori e principi ispiratori. All’impegnativa prova della raccolta delle firme, nelle diverse circoscrizioni elettorali del voto europeo, su una lista condivisa di centro DC e popolare, i vari capi e capetti della composita galassia della diaspora DC, hanno preferito la scorciatoia della presenza in liste collegate alla destra o alla sinistra della politica italiana.
Èdavvero una querelle speciosa e deprimente quella montata da Calenda nei confronti di Totò Cuffaro. Essa non ha nessun fondamento, se non per incardinarsi come l’espressione di una ennesima presa di posizione per inutili invettive che da un po’ di tempo Calenda sparge a destra e a manca, nelle vesti di saggio dispensatore di integerrime regole da codice etico, politico e istituzionale. Come dire, una insostituibile risorsa della nostra Repubblica.
Un governo espressione della maggioranza della metà dell’elettorato italiano si appresta a varare una modifica della Costituzione, ossia della Repubblica parlamentare, con l’idea di introdurre un premierato che, così come formulato, appare un ircocervo a metà tra il modello francese e quello tedesco. Insieme a tale scelta, il governo Meloni intende saldare il conto con la Lega, impegnandosi ad approvare l’istituto previsto in Costituzione dell’autonomia differenziata, che tante questioni sta sollevando, tanto sul piano sociale e culturale che su quello politico istituzionale.
Da molto tempo sosteniamo, con l’insegnamento del compianto prof. Miglio, l’idea di un’Italia federale organizzata sulla base di cinque o sei macroregioni, ma, ahimè, sin qui le nostre sono state inutili “grida nel deserto”, in un Paese centralista che non si rende conto, così com’è attualmente organizzato, di essere destinato al fallimento. Il tema è ancor più attuale oggi con la volontà espressa dal governo Meloni di procedere verso un premierato che si potrebbe accettare solo se bilanciato da una struttura istituzionale di tipo federale sul modello tedesco, ossia, con la presenza di un sistema organizzato su cinque o sei macroregioni in grado di superare l’attuale frammentazione non più compatibile con la realtà italiana nel contesto europeo e internazionale.
Che in Ungheria prosperi un regime di destra è un fatto notorio e che Orban per questo motivo sia anche un imbarazzo per l’Unione europea cui appartiene, lo capisco. Inoltre è amico della Meloni, e anche questo è un fatto grave. Aggiungiamo, poi, che non ha sospeso le relazioni ungheresi con la Russia di Putin, per cui non ha problemi di forniture né di armi né di gas. Insomma, è su una linea di confine tra i buoni e i cattivi. La giustizia, in Ungheria, è un problema squisitamente nazionale, come dovunque. I giudici sono indipendenti e possono mettere in difficoltà o sotto accusa il governo, come dovunque.
Fumi di guerra e preoccupazioni diffuse. Ma davvero siamo alle soglie di una terza guerra mondiale oppure la stiamo già combattendo, come pensa qualcuno? Secondo il premier polacco, Tusk, i prossimi due anni saranno i più difficili dell’Europa dopo il 1945. Secondo la Meloni, forse la guerra non è così imminente come potrebbe sembrare ma è invece urgente una deterrenza europea. Secondo Macron, invece, le cose sono arrivate a un punto tale che si dovrebbe intervenire con truppe europee a sostegno dell’Ucraina.